
Gremitissima la Basilica Cattedrale di Matera per la celebrazione di chiusura diocesana dell’Anno Giubilare presieduta dal vescovo Benoni e concelebrata dall’intero presbiterio diocesano.
Fedeli giunti da ogni parte della Diocesi su invito del pastore che ha richiesto di sospendere, per l’occasione, tutte le altre celebrazioni eucaristiche.
Un evento che si è celebrato in contemporanea in quasi tutte le Diocesi, come indicato nella stessa Bolla di indizione del Giubileo “Spes non confundit” (in altre Chiese locali, come Tricarico, nella sera di sabato 27).
Celebrazioni che, diversamente dalla tradizione, non hanno previsto la chiusura di Porte Sante nelle Diocesi in quanto le stesse un anno fa sono state aperte lo scorso anno solo a Roma.
Accanto alla solennità della celebrazione, gioiosamente animata dal Coro diocesano Signum Magnum, un clima di leggera mestizia regnava in ciascuno dei presenti per la consapevolezza di essere al termine di un anno straordinario.

È quel che ha ben saputo esprimere il vescovo Benoni nell’incipit dell’omelia:
All’idea che dobbiamo chiudere l’Anno giubilare, siamo attraversati dalla considerazione: “È già finito!”. Come se dovessimo tornare al grigiore del quotidiano.
È vero, ma nella “banalità”, nell’ordinarietà della vita che si manifestano le grandi opere di Dio.
Considerazione iniziale a cui è seguita la sottolineatura che non è il momento delle verifiche, ma di guardare alla grande generosità del Signore in questo “anno ricco”, in cui “sono successe tante cose” – suggerendo nei presenti un riferimento anche a sé stesso, divenuto vescovo di ben due Diocesi! – e vivere operativamente in attesa del prossimo Giubileo, che si celebrerà nel 2033.
Ecco il primo mandato di
continuare a essere segni di speranza verso le categorie che in questo nostro mondo vivono un deficit di speranza (malati, anziani, poveri, giovani, stranieri, detenuti…).
Ad esso, agganciato all’odierna liturgia della Parola della festa della Santa Famiglia, è seguito l’invito
all’impegno personale a costruire delle comunità dove ci siano dinamiche familiari: di confidenza, di ascolto, di perdono reciproco, dove i più deboli vengono messi al centro, sostenuti, dove tutti si sentono fratelli e sorelle di coloro che vivono momenti di fatica, dove non ci si ci gira dall’altra parte, dove non basta che sei rimasto male per una cosa e te ne vai o, peggio ancora, desideri che qualcuno se ne vada: non è una Chiesa familiare questa e noi non possiamo essere un’azienda ecclesiale.
Comunità in cui io non ti accuso per cosa hai sbagliato tu nei miei confronti ma – coerentemente con le linee pastorali che ci siamo dati “Dalla ferita alla fraternità responsabile” – ho la forza di dire il male che abbiamo subito o compiuto solo nell’ottica del Signore che rimette e toglie il male che c’è in mezzo a noi dove viviamo degli spazi di riconciliazione.
E prendendo spunto dal Vangelo in cui si sottolinea per ben quattro volte che Giuseppe partì prendendo con sé “il bambino e sua madre”, il vescovo ha proposto anche l’impegno a
tenere il Signore al centro anche delle nostre relazioni.
Al termine della celebrazione, il canto di ringraziamento del Te Deum.

Con la saggezza che connota sempre i suoi interventi, mons. Ambarus ha dato due belle indicazioni pratiche di vita famigliare che ci piace di seguito riportare:
- per le famiglie “giovani”, la raccomandazione a considerare gli ambienti famigliari il luogo dove si impara la vita “sopportando e perdonando a vicenda” (Col 3,12). “Io lo dico spesso: se i ragazzi che crescono nelle nostre famiglie non imparano nella famiglia a borbottare, ad avere da ridire, a litigare con i genitori e a vivere anche una certa conflittualità, come faranno a gestire i conflitti da grandi? Una conflittualità in famiglia non è una cosa brutale: è un modo per misurarti ad esternare, verbalizzare i tuoi sentimenti, le tue emozioni… e sai che qualcuno ti ha accoglie per quello che sei e tu impari piano piano piano a gestirti”.
- per i figli che diventano “genitori dei propri genitori anziani”, un invito alla pazienza caritatevole, sulla scorta delle indicazioni sapienziali della prima lettura (Sir 3, 3-7.14-17), perché mai i più anziani si considerino un peso: “è un modo per fare un cammino di riconciliazione con loro e di riconoscenza per quello che hanno fatto”. E inoltre, “le nostre famiglie sono segno di grande guarigione e di grandi ferite”;
Basilica Cattedrale “Maria SS. della Bruna” – Matera, 28 dicembre 2025
Trascrizione integrale
Io non so se il vostro cuore in questi giorni, all’idea che dobbiamo chiudere l’anno giubilare, sia stato attraversato da un senso, non dico di tristezza, ma almeno dalla considerazione: “È già finito!”, come se dovessimo tornare al grigiore del quotidiano. Difatti, l’anno giubilare è un anno straordinario, di grazia. Dire che chiude è come se dicessimo: la straordinarietà non c’è più. È vero, ma c’è l’ordinarietà ed è nella “banalità” e nell’ordinarietà della vita che si manifestano le grandi opere di Dio.
Ma cos’è stato questo anno giubilare?
È stato un anno straordinario, innanzitutto, perché il Signore è stato buono con noi.
Il Signore è stato generoso con la sua grazia.
Il Signore non ha negato la sua presenza.
È stato un anno ricco, sono successe tante cose.
E parlando oggi pomeriggio anche con mons. Caiazzo che in contemporanea con noi chiude l’anno giubilare dicevamo: “Sì, è stato un anno ricco perché al primo posto mettiamo la gratitudine e la riconoscenza per la volontà e la fedeltà del Signore”.
Poi che l’abbiamo vissuto o non l’abbiamo vissuto ciascuno di noi con registri particolari, questo lo consegniamo nelle mani di Dio.
Era stato aperto il Giubileo della speranza e Papa Francesco diceva: “È l’anno in cui come comunità cristiana, come singoli battezzati, dobbiamo rigenerare la nostra Speranza. E l’unica speranza è Cristo morto e risorto che ci ha aperto il passaggio della vita eterna e quindi dà un senso totale a questa vita”.
Allo stesso, tempo Papa Francesco diceva nella bolla di indizione del Giubileo: “Attenzione, rigenerare la speranza significa che come comunità cristiana e come singoli battezzati, tutti siamo invitati a diventare segni di speranza verso le categorie che in questo nostro mondo vivono un deficit di speranza e parlava dei malati, degli anziani, dei poveri, dei giovani, degli stranieri, dei detenuti … Se noi non siamo segni di speranza per loro, il rischio è che la loro vita rimane giù, nel buio, tante volte nella disperazione”.
Non è il momento di fare le verifiche ma questa parte dell’essere segno di speranza non deve venire meno come Chiesa, mai!
E celebriamo quest’oggi la conclusione dell’Anno giubilare all’interno della festa della Santa Famiglia.
Allora, nella prima lettura abbiamo ascoltato un invito bellissimo (apro e chiudo parentesi: la Santa Famiglia non sovrapponiamola più alla famiglia del Mulino Bianco, dove Gesù si alzava subito per la colazione, senza tre sveglie della mamma e non faceva i capricci a colazione… “Buongiorno amore”, tutti sorridenti e contenti. Perché, se così facciamo, rischiamo di perdere la ricchezza più grande della Sacra Famiglia): l’autore invita noi: “Figlio, tuo padre e tua madre diventano anziani, potrebbero anche andare fuori di senno, ma tu abbi pazienza con loro, prenditi cura di loro, non li abbandonare. Quasi a dire: continua a farli sentire importanti. Le tue preghiere in questo modo saranno esaudite, tu ti rafforzerai nella tua dignità! Ecco, vedete, queste poche pennellate della prima lettura a ciascuno di noi in questo giorno ci dicono che i nostri nonni, è vero, diventano anziani, vivono la solitudine, finanche il rischio di sentirsi solo un peso nelle nostre famiglie, lo sappiamo: tante volte quanto è faticoso far quadrare tutto per riuscire a seguire tutto! Ma oggi l’invito è forte: tu dovendo fare da genitore al tuo genitore, tu, uomo e donna credente, dovrai fare i conti con la tua famiglia. Le nostre famiglie sono segno di grande guarigione e di grandi ferite. E mentre ci prendiamo cura anche dei nostri nonni, dei nostri genitori anziani, è un modo per fare un cammino di riconciliazione con loro e di riconoscenza per quello che hanno fatto. Non desistiamo da questo, soprattutto preserviamoli dal pericolo radicale di sentirsi solo un peso.
Invece, nella seconda lettura (Col 3,12-21) – lo so che vi è rimasta subito l’espressione: le mogli siano sottomesse ai mariti! … ma Paolo è l’uomo del suo tempo – eppure si aggiunge una cosa straordinaria, rivoluzionaria: perché dice “Voi mariti, amate le vostre mogli”, quindi come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso. Paolo descrive le situazioni e gli ambienti delle relazioni familiari come il luogo dove si impara la vita “sopportando e perdonandosi a vicenda”. Allora io lo dico spesso: se i ragazzi che crescono nelle nostre famiglie non imparano nella famiglia, a borbottare, ad avere da ridire, a litigare con i genitori, perché sanno che l’amore è il fondamento di quelle relazioni e non imparano a vivere anche una certa conflittualità, come faranno a gestire i conflitti da grandi? Perché una conflittualità in famiglia non è una cosa brutale: è un modo per misurarti a esternare, verbalizzare i tuoi sentimenti, le tue emozioni e sai che qualcuno ti accoglie per quello che sei e tu impari piano piano piano a gestirti; ecco: sopportandovi e perdonandovi a vicenda, nelle nostre famiglie, dove c’è anche tanta fatica – lo sappiamo e non ci dobbiamo illuderci – per barcamenarci nel quotidiano, tanta pazienza da vivere costantemente gli uni verso gli altri. Ma un luogo luminoso di vita, sono luoghi di luminosi di appartenenza le famiglie. Sottolineo, anche luoghi di grandi dolori: grandi amori e grandi dolori spesso vanno di pari passo, ahimè, ma cominciamo a contemplare la vita delle nostre famiglie con uno sguardo luminoso nell’amore, a dire: io non ho che te, non ho che voi, non molliamo dal lottare quotidianamente per questo. È facile mandare gambe all’aria tutto. Ecco la scuola della vita di Paolo.
Nel Vangelo ci viene presentata una famiglia tutta un po’ particolare: una famiglia di profughi. Giuseppe e Maria sono dei profughi. Già la paternità e la maternità è un po’ così: Maria è rimasta incinta per l’opera dello Spirito Santo, Giuseppe non è il padre, insomma, ma ci vengono presentati come dei profughi. L’angelo nel sogno dice a Giuseppe: “Alzati, prendi il bambino e vai in Egitto”. Quattro volte ritorna l’espressione “prendi il bambino e sua madre”. Andare in Egitto significava tornare nella terra dove i tuoi padri sono stati schiavi e uccisi, ma vai per proteggere questa vita, per permettere al bambino di crescere: molla tutto diventa “bonsai” nella tua identità e portati appresso tutto. È una famiglia di profughi come le tante famiglie di profughi che incontriamo sul nostro territorio sono in cerca di una vita migliore, mollano tutto e su questo non possiamo dividerci quasi politicamente, perché sono situazioni di genitori che cercano una vita migliore. Ecco, c’è però questa espressione: “Prendi tu la tua sposa e il bambino”, che torna quattro volte e mi risuona tanto. Che cosa significa questo per noi? Che nelle nostre famiglie bisogna che rimettiamo il Signore al centro: accogliere il bambino, sua madre cioè Maria, che noi chiamiamo la Santissima, e metterli al centro delle nostre famiglie. È un modo per garantirci la possibilità di spezzare le spirali e le dinamiche di conflittualità, i malintesi, perché quando io e te non andiamo d’accordo, se il Signore rimane al centro delle nostre famiglie, allora parlo al Signore di te; quando tra noi non riusciamo a parlare parliamo con il Signore che fa da intermediario, da mediatore. Ecco, prendi la sposa e il bambino è un invito che mi sembra oggi venga rivolto anche a noi.
Anche a noi come Chiesa di Matera-Irsina ci viene detto: sì, chiudiamo l’anno Giubilare, ma con un mandato ben preciso: non possiamo rinunciare a desiderare e a costruire una Chiesa dove ci sia dimensione di famiglia, dinamiche di famiglia, dove ci si accoglie, ci si perdona, ci si istruisce a vicenda. Sì, comunità dove possiamo e dobbiamo permettere che l’altro sbagli nei miei confronti e io lo possa perdonare, perché una comunità dove non viene contemplata la possibilità di sbagliare non è umana, non è cristiana: non è umano non sbagliare. Quindi – questa come prima cosa – chiudiamo l’anno giubilare ma rimaniamo fermi sul desiderio, sulla ricerca e sull’impegno personale a costruire delle comunità dove ci siano dinamiche familiari, di confidenza, di ascolto, di perdono reciproco, dove i più deboli vengono messi al centro, sostenuti, dove tutti si sentono fratelli e sorelle di coloro che vivono momenti di fatica, dove non ci si ci gira dall’altra parte, dove non basta che sei rimasto male per una cosa e te ne vai o, peggio ancora, desideri che qualcuno se ne vada: non è una chiesa familiare questa e noi un’azienda ecclesiale non possiamo esserlo.
La seconda come dinamica familiare, come Chiesa, alla luce della chiusura del Giubileo è: tenere il Signore al centro anche delle nostre relazioni
Le linee pastorali che ci siamo dati è “dalla ferita alla fraternità responsabile”. Abbiamo il coraggio di celebrare nelle nostre comunità momenti non di chiarimento in cui io dico non cosa hai sbagliato tu nei miei confronti ma dove possiamo anche dire il male che abbiamo subito o compiuto ma solo nell’ottica del dire: Signore rimetti e togli il male che c’è in mezzo a noi. Comunità dove viviamo degli spazi di riconciliazione.
Ecco, quindi, non è chiusura: è apertura.
Io voglio anche ringraziare i sacerdoti che hanno fatto gli straordinari quest’anno. Abbiamo avuto un anno straordinario, e loro hanno vissuto gli straordinari, che non sono pagati. Io voglio ringraziare loro, coloro che lungo l’anno hanno reso possibile tutti gli eventi giubilari: i pellegrinaggi, la GMG, e tutti coloro che nel piccolo magari anche nel nascondimento hanno dato un piccolo contributo affinché tutti camminassimo con decisione nell’incontro con il Signore.
Io ringrazio innanzitutto loro – sacerdoti diaconi consacrati consacrate – e tutti quanti voi, e quindi dico: per favore chiudiamo quest’anno giubilare – il prossimo sapete quand’è? Nel 2033! – ma non scendiamo di livello nella vita spirituale cristiana, lasciamo che il vangelo sia al centro, con un livello alto della vita ecclesiale e spirituale.
† Benoni Ambarus
Arcivescovo di Matera-Irsina e Vescovo di Tricarico





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