“Il Vescovo incontentabile”

Riceviamo e pubblichiamo una riflessione di Edmondo Soave, ex giornalista della RAI, sulla figura del nuovo arcivescovo di Matera-Irsina mons. Benoni Ambarus emersa dalla lettura del suo breve saluto alle autorità di Matera nel giorno di inizio del ministero.

Vorrei dire che i cristiani sono, e dovrebbero esserlo sempre di più, degli incontentabili sulla realtà della nostra città”. Nel suo breve saluto alle autorità di Matera nel giorno solenne di inizio del ministero, “don Ben” come tutti hanno ormai già imparato a chiamare il nuovo Vescovo, ha di fatto fornito la chiave di lettura circa lo stile e soprattutto la sostanza della missione appena abbracciata. Impossibile ovviamente immaginare le reazioni di quell’uditorio di amministratori della cosa pubblica ad un discorso così diretto ed anche piuttosto inusuale. E tuttavia a ben pensarci, quell’aggettivo, “incontentabile”, non è per niente nuovo nella storia della Chiesa; anzi, rispecchia e definisce (ma il condizionale sarebbe più opportuno anche qui) lo statuto politico del credente nella società di appartenenza. La sua “inquietudine” frutto dell’incontentabilità (anche politica) svela infatti il carattere escatologico della fede, fondata sulle promesse di Dio, e quindi anche la differenza qualitativa che ne consegue rispetto all’esistente, aprendo ad un futuro che per lui non può essere il mero prolungamento del presente. L’inquietudine e la incontentabilità divengono pertanto lo stimolo verso una “ulteriorità”, praticata nel servizio alla persona, che ha come fine ultimo il regno di Dio, che non è di questo mondo.

La realpolitik ha ritenuto tuttavia che quello statuto fosse troppo impegnativo ed anche  piuttosto difficile da applicare (anche per le conseguenze), e più o meno consapevolmente l’ha lasciato scivolare  verso un differimento temporale sine fine,  (nella vulgata “non si governa con i Paternoster”) a favore dell’atteggiamento esattamente opposto (e di facile applicazione), di assuefazione all’esistente, di perfetta concordanza cioè tra realtà civile e realtà di fede, di schiacciamento della fede sulla realtà di fatto, secondo la logica “costantiniana” che tramontata come espressione di periodo storico particolare, continua a vivere anche oggi come diffusa mentalità (clericale) di una pastorale di conservazione, soprattutto al Sud.

Don Ben ha invece ripristinato quello statuto originario e la “incontentabilità” ad esso naturalmente legata; ma lo ha fatto in modo ovvio e perfino “banale”(altro termine usato nel saluto finale) perché nato, c’è da pensare,  dal suo  lungo “cursus honorum” al servizio degli ultimi nella diocesi di Roma: la  “diaconia della carità”, la chiamano: venticinque anni, prima da prete e poi da vescovo ausiliare, spesi  a curare gli scarti della modernità  traducendo  in concreto l’identificazione rivendicata da Gesù  con i  poveri, gli emarginati, i Rom, i migranti,  i carcerati e i  malati.

E lo ha detto esplicitamente agli amministratori materani a fugare ogni sospetto di abituale richiamo retorico, indicando perfino la concretezza di quella “ulteriorità” rispetto al politicamente corretto: “non ci rassegniamo di fronte alle difficoltà, sentiamo le persone fragili come nostri prediletti perché hanno bisogno di essere nutriti e rafforzati per la vita, ma anche di senso della vita”. Avvertendo tuttavia che la collaborazione “è e rimane anche sul registro della franchezza e della vigilanza profetica”. Un richiamo alla funzione critica proprio perché profetica della Chiesa nella società.  Se infatti la profezia è di fatto il confronto/scontro tra la Parola di Dio e la cronaca degli uomini, allora Don Ben avrà un bel da fare nel suo apostolato, sfruttando ovviamente la sua esperienza precedente di operatore nella “Chiesa ospedale da campo” in una piccola regione del Sud che vive in modo acuto i problemi del Mezzogiorno: spopolamento, inverno demografico, fuga dei giovani, in molti casi (sanità, istruzione e collegamenti) anche cittadinanza di fatto dimezzata. Insomma, una vasta area del bisogno su cui si innesta la “mediazione anomala” della politica e genera un diffuso senso di rassegnazione che porta ad interpretare lo stato di fatto inopinatamente come volontà di Dio.

Qui il Vescovo potrà, come abituato a Roma, ben registrare e misurare la necessaria “incontentabilità” del cristiano.  Una indicazione, tuttavia, è emersa durante l’omelia su un fronte tra l’altro delicato e decisivo come l’immigrazione; la questione però è da leggere in filigrana in sede di commento del vangelo del giorno che ritrae Marta e Maria di fronte a Gesù: don Ben ha descritto una impensata dialettica “ospitante/ospitato”, che in qualche modo lo riguarda direttamente. “Non esiste accoglienza vera senza una fecondità reciproca (…) mai l’accoglienza vera è unidirezionale” – ha scandito dall’altare della cattedrale.

Don Ben, rumeno/romano, ospite perché immigrato, primo Vescovo straniero in Italia, è chiamato ora ad “ospitare” la fede dei Materani; lui pronipote (lo ha ricordato nel saluto finale) di quei Daci (l’antica Romania) sottomessi dai Romani nel cui esercito militava sant’Eustachio, allora generale di Roma ed oggi patrono di Matera. Ma stavolta nessuna conquista solo servizio…l’incontentabilità del cristiano!

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Edmondo Soave

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