«Vi invito ad accompagnarmi nella profezia per la pace — Cristo, Signore della pace! Il mondo sempre più violento e guerriero mi spaventa davvero, lo dico davvero: mi spaventa —; nella profezia che indica la presenza di Dio nei poveri, in quanti sono abbandonati e vulnerabili, condannati o messi da parte nella costruzione sociale; nella profezia che annuncia la presenza di Dio in ogni nazione e cultura, andando incontro alle aspirazioni di amore e verità, di giustizia e felicità che appartengono al cuore umano e che palpitano nella vita dei popoli. Arda nei vostri cuori questa santa inquietudine profetica e missionaria. Non rimanete fermi»
Con queste parole Papa Francesco si era rivolto il 15 ottobre 2022 alla “compagnia” di Comunione e Liberazione ricevuta in Piazza San Pietro in occasione del centenario della nascita del fondatore don Luigi Giussani.
La mostra Profezie per la pace, presentata al Meeting di Rimini 2025, è nata così: dal desiderio di prendere sul serio quell’invito del Papa a “farsi compagni nella profezia della pace”.
L’idea, maturata dentro Gioventù Studentesca e sviluppata insieme a un gruppo di insegnanti e studenti, non è stata quella di mettere in fila i drammi già noti, ma di mostrare qualcosa di imprevisto: semi di pace che emergono nel deserto della guerra.
Il metodo è stato suggerito dal Papa stesso che nella Fratelli tutti (261) scriveva: “Non fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite, tocchiamo la carne di chi subisce i danni …”
Ogni gruppo di studenti ha approfondito i principali contesti di guerra nel mondo fino ad incontrare, raggiungendoli nei loro paesi, persone comuni che nel mezzo di un conflitto ci vivono o vi hanno vissuto testimoniando percorsi di pace inimmaginabili.
A questi artigiani della pace i giovani hanno posto tre domande che anche gli adulti dovrebbero sentire urgenti: come costruire la pace? E’ possibile perdonare? Come non perdere la speranza?

Ne è nato un mosaico di storie da varie parti del mondo: dalla Palestina ad Haiti, dalla Siria al Sudafrica, dalla Colombia al Myanmar.
Tra quelle che ci hanno colpito durante la visita guidata alla mostra, c’è stata quella di due madri: Layla Alsheikh, palestinese musulmana, e Robi Damelin, israeliana, entrambe accomunate dalla perdita di un figlio nel 2002, anno della Seconda Intifada.
Qusay, il figlio di Layla, morì a soli 8 mesi per dei gas lacrimogeni usati dall’esercito israeliano che non permisero ai genitori di trasportarlo in ospedale per le cure; David, il secondogenito di Robi, rimase vittima di un attentato da parte dei palestinesi.
Oggi si ritrovano nella stessa organizzazione “Parents Circle – Families Forum” che riunisce più di 800 persone, israeliane e palestinesi, familiari di vittime della guerra, un luogo di incontro e di riconciliazione che intende mostrare che è possibile spezzare la catena delle vendette.
Un’altra storia che arriva dal Rwanda è quella di Jean Paul Habimana, un ragazzo di etnia Tutsi, che nel 1994, ancora bambino, scampò al genocidio operato dagli Hutu, un milione di vittime in pochi mesi.
A salvare lui ed uno dei suoi fratelli fu sorprendentemente proprio una famiglia Hutu che li nascose per diversi giorni. La memoria di questo fatto gli permise, da adulto, di perdonare gli assassini di suo padre i cui figli frequentavano la sua stessa classe del liceo.
“Ho iniziato a capire quanto era importante perdonare, quando ho iniziato a vedere le persone in faccia. Finché non ho nulla a che fare con l’altro è molto facile considerarlo come una minaccia. Invece quando guardi davvero in faccia l’altro ti accorgi che in realtà siete tutti sulla stessa barca e si apre una strada nuova.”
Quale messaggio possiamo cogliere da storie come queste? E’ realistico parlare di profezie per la pace?
A leggere i dati sui conflitti nel mondo si rimane senza parole: dal 2010 ad oggi i conflitti armati in cui sono attivi gli Stati sono raddoppiati, passando da 31 a 61. Molti di questi sono guerre vere e proprie con il discrimine fissato da un numero di morti in battaglia superiore a 1.000.
A questi si aggiungono i conflitti portati avanti da organizzazioni non statali (gruppi armati e terroristici, organizzazioni criminali) che nel 2024 hanno portato il numero totale dei conflitti a 184.
Secondo il Global Peace Index 2025 cresce non solo il numero dei conflitti ma anche la loro durata; il numero delle guerre che si sono concluse con un vincitore e un vinto sono crollate dal 49% al 9% negli ultimi cinquant’anni, quelle terminate con un trattato di pace sono scese dal 23% al 4%.
Possono esserci anche delle tregue ma la maggior parte dei conflitti continuano sotto traccia e gli stessi sforzi di governi e istituzioni internazionali sembrano incapaci di raggiungere l’obiettivo della pace.
Tutto questo non giustifica il cinismo e l’indifferenza di fronte al dolore del mondo di parte dell’opinione pubblica occidentale mentre lodevolmente un’altra parte si mostra capace di gesti generosi di condivisione, nel tentativo di portare sollievo ai bisogni e alle sofferenze delle popolazioni in guerra.
L’invito ad essere profeti di pace è rivolto a tutti ma per i cristiani risuona di un accento inconfondibile, oserei dire quello dell’incarnazione, che fa rimanere dove il Signore ti chiama, come documenta la storia dei 19 religiosi martiri dell’Algeria uccisi in attentati terroristici nel cosiddetto decennio nero del Paese (1992-2002).
Una storia di fedeltà a Cristo e al suo corpo che è la Chiesa che trova riscontro ai nostri giorni nelle parole del vescovo di Karkiv Pavlo Honcharuk, 47 anni, titolare di una diocesi enorme, gran parte della quale sotto occupazione russa.
In una recente intervista a “La Nuova Europa” a chi gli domanda a cosa servisse restare, vista l’impossibilità di portare aiuto alla maggior parte dei fedeli, rispondeva così: “resto a Kharkiv perché Dio è lì ed io sono suo amico“.
Nel videomessaggio che concludeva la mostra Profezie per la pace al Meeting di Rimini 2025 il cardinale Pierbattista Pizzaballa osservava: «Il profeta non è chi prevede il futuro, ma chi sa interpretare la realtà attuale che vive alla luce della fede in Dio».
«I profeti dell’Antico Testamento non erano visionari. Isaia aveva di fronte a sé la città di Gerusalemme distrutta, però era capace di vedere la città ricostruita, bella, meravigliosa. Non era un visionario, non era un illuso: era capace di interpretare la realtà di vita che, nonostante la tanta distruzione, comunque ancora c’era e dalla quale si poteva ripartire per fare qualcosa, ricostruire».
E concludeva: «Essere profeti della pace oggi non significa saper prevedere quando arriverà la pace, ma essere capaci di vederla e di farla vedere, di mostrarla, là dove la pace si realizza».
Un compito che diventa possibile per ognuno di noi se solo volgiamo lo sguardo alle persone che testimoniano, nell’ombra e nell’oscurità della guerra, la luce della resurrezione.

Tutte le storie presentate nella mostra di Rimini sono state raccolte in un volumetto edito da Itaca che invito a leggere, insieme alle interviste integrali scaricabili online.
Scrivi un commento