
Le aree interne sono davvero diventate un “vuoto a perdere”?
L’interrogativo non è solo provocatorio, è necessario. E riguarda da vicino territori come la Basilicata, una regione ricca di storia, cultura e paesaggi straordinari, ma impoverita da decenni di marginalizzazione.
I suoi 131 comuni raccontano un’Italia che resiste, anche se spesso arranca: pochi servizi, infrastrutture inadeguate, opportunità di sviluppo spesso promesse e mai realizzate.
Secondo le linee guida della Strategia Nazionale per le Aree Interne, la risposta sembrerebbe affermativa: sì, questi territori rischiano di essere accompagnati silenziosamente verso l’irrilevanza. Ma non può essere così. Non deve essere così. Sarebbe il fallimento dello Stato sociale nella sua totalità: della politica, della scuola, del terzo settore, delle istituzioni religiose, dei corpi intermedi.
Tuttavia, guardare a questi territori solo con gli occhi della rinuncia o della commiserazione è profondamente ingiusto. La Basilicata — dalla collina materana al Vulture Melfese, fino alle valli del Pollino — non è un vuoto a perdere, ma un vuoto a rendere. Rendere in termini di bellezza, identità, relazioni, qualità della vita. Non si tratta di inseguire modelli industriali, ma di ripensare il concetto di “ben vivere”: un equilibrio tra benessere sociale, economico e ambientale.
Occorre imparare a “guardare ciò che si muove ma non vediamo”, perché troppo concentrati su quello che ci appare immobile. È un invito a rimettere in discussione i nostri sguardi, prima ancora delle nostre azioni. Perché la vita delle aree interne, spesso data per morta, pulsa ancora sotto la superficie. Si agita nei piccoli gesti quotidiani, nelle reti comunitarie, nelle iniziative culturali dal basso.
Le difficoltà sono evidenti e innegabili: disoccupazione, lavoro precario, spopolamento, denatalità, invecchiamento della popolazione, fuga dei giovani, carenza di servizi essenziali. Ma di fronte a questo scenario, la risposta non può essere l’indifferenza o la rassegnazione.
Come ci ricorda Don Milani: “A cosa serve avere le mani pulite se le teniamo in tasca?”
La sfida è tornare ad animare le comunità, renderle forti, consapevoli, capaci di futuro. Non basta conservare: bisogna trasformare, ma a partire da ciò che si è.
La Basilicata non è solo una regione da salvare: è una lezione di resilienza. Da chi si perde nei boschi delle Piccole Dolomiti Lucane, a chi guarda la luna poggiata sui calanchi di Carlo Levi, o si distrae allo stesso bivio di Rocco Scotellaro, c’è un popolo che resiste. Che continua a cercare una direzione, senza arrendersi all’idea di essere un margine dimenticato.

La cultura e l’arte non sono un lusso o un passatempo. Sono leve di trasformazione. La politica e l’attivismo ci salvano dalle situazioni difficili; la cultura e l’arte ci salvano nelle situazioni difficili.
Un esempio concreto e virtuoso arriva da Salandra, piccolo borgo della collina materana dove, da otto anni ormai a metà settembre si svolge “Storie Parallele Festival”, un festival di cinema documentario che è diventato, nel tempo, molto più di un evento artistico. È un processo partecipativo, un progetto di comunità che tiene insieme cinema, musica, memoria, appartenenza.
A Salandra il festival ha saputo radicarsi nel tessuto sociale: non come intrattenimento, ma come presa di parola collettiva. Ogni cittadino è parte di qualcosa, non solo spettatore. È questo che fa la differenza: sentirsi protagonisti, non comparse, nella storia del proprio territorio.
Il futuro delle aree interne passa da qui. Dalla consapevolezza che non esistono territori marginali, ma solo sguardi marginali. E che ogni vuoto può tornare a riempirsi. Di senso, di cultura, di comunità.
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