Chiediamoci invece dove abbiamo sbagliato e cosa abbiamo fatto mancare

La morte delle gemelle Kessler, le stelle di Guareschi e una vecchia canzone tanto bella.

La notizia della morte delle gemelle Kessler sta riempiendo, in questi giorni, le pagine dei giornali. La deontologia professionale in verità porrebbe ai giornalisti delle precise condizioni nel caso, come è questo, di morti per suicidio, imporrebbe delle norme che rispettino una certa sobrietà nel riferire la notizia. Purtroppo in questo caso tutto ciò è stato largamente disatteso.

Ad ogni modo, non è di questo che vogliamo parlare, non del gesto estremo delle celebri gemelle vogliamo parlare. Sebbene bisognerebbe almeno dire – si sa quali sarebbero le giustificazioni che si tirano fuori riguardo all’interesse pubblico della notizia – che anche nel caso della morte di personaggi pubblici andrebbe verificata l’opportunità di rendere pubblico ogni aspetto di quella morte. Come sappiamo, molto spesso anche tra i personaggi pubblici ci può essere chi vorrebbe vivere questo triste momento – come si dice – “in forma strettamente privata”. È un loro diritto.

Sono ragioni cui però non lascia molto spazio la sciagura dell’incontinenza giornalistica. Per cui, non insistiamo più di tanto su questo argomento e voltiamo subito pagina.

Tra le tante cose, almeno a me ha colpito, in questa circostanza, una coincidenza: la morte delle Kessler è capitata nella Giornata Mondiale dei Poveri istituita da papa Francesco.

Quando si verifica un caso di suicidio, un vero cronista riesce a cogliere abbastanza facilmente quali sono le reali questioni che la gente tira fuori; parlo della povera gente, di chi cioè vive veramente la propria vita e non di chi, dovendo riportare la notizia, ha il problema di realizzare il massimo di visibilità mediatica.

La povera gente non sta lì a soffermarsi morbosamente sul gesto volontario delle vittime. Le domande che circolano con insistenza, con ossessiva insistenza, sono altre; di fronte ai casi di suicidio le domande ricorrenti, che la gente comune nella sua generosità si pone, sono: “In cosa noi abbiamo sbagliato? Cosa noi abbiamo fatto mancare alle povere vittime?”

Proprio la Giornata dei poveri doveva farci dire qualcosa che forse non abbiamo detto. Abbiamo presentato i poveri come “altri”, come altro da noi. Per cui, tutto quello che ci verrebbe chiesto è trasferire parte della nostra ricchezza a chi non ha niente. Abbiamo ridotto la povertà, lo scandalo della povertà a questo tipo di transazioni, come dicono in banca. Invece non è soltanto questo; la povertà è qualcosa di enormemente più drammatico e che investe indistintamente tutti noi.

Lo scandalo della povertà ci costringe a guardare come in uno specchio. Perché la povertà non è affatto qualcosa di altro da noi. Lo scandalo della povertà è uno specchio nel quale possiamo vedere riflessi noi stessi. Anche ognuno di noi è segnato da una dolorosissima mancanza. Ci manca infatti drammaticamente quell’alito di vita che non possiamo darci da noi e che, quando viene a mancare, sentiamo venire meno il respiro.

Tanti anni fa i celebri attori Walter Chiari e Carlo Campanini, famosi all’epoca più o meno come Alice ed Ellen Kessler, vollero incontrare padre Pio. E, incontrandolo, si presentarono a lui come “due poveri attori”. “Avete detto bene” rispose san Pio, “siamo tutti poveri”. Nemmeno due attori all’apice del successo possono dire di non esserlo.

Ma cosa vuol dire essere poveri? Cosa ci manca, tanto da farci dire di essere poveri? Ci manca proprio questo: la povertà, la consapevolezza di essere poveri. E questa mancanza ci ha consegnati al demone della disperazione avendo smesso di guardare alla vita come a qualcosa di assolutamente necessario e che alita continuamente nei nostri cuori il conforto del suo soffio vitale.

Però è inutile attardarsi anche dietro a queste analisi. Proviamo piuttosto a fare il passo che ci è richiesto. Andiamo incontro fiduciosi a questa misteriosa realtà che ha il potere di dare a noi la vita. Guardiamoci nello specchio della povertà e vedremo riflesso tutto quello che ci manca.

Abbiamo bisogno di riscoprire la nostra povertà. E quindi, come i veri poveri, tendiamo la nostra mano verso chi quella vuota mano può efficacemente colmarla. Facciamo questo passo; facciamolo, perché non rimarremo delusi.

Quello che ci manca, più precisamente, è la speranza. Pensiamo bene a questo. Perché soltanto chi è povero spera. Pensiamoci bene e vedremo che è proprio così. Per sperare, abbiamo bisogno di scoprirci poveri.

Non ci serve diventare ricchi. Non ci serve il successo. Non sono sufficienti le luci della ribalta per illuminare la nostra vita. Né serve un potere di alcuna natura. Ci serve soltanto un po’ di povertà, quel po’ di onestà che serve a guardare la nuda verità di noi stessi.

Come ci insegna Guareschi, non ci servono i milioni. Nel buio della nostra esistenza ci basta sollevare lo sguardo e, in quel buio che opprime, guardare le stelle. Non si tratta di milioni. “Nelle sere di primavera e d’estate» si può leggere ne “Il decimo clandestino” di Guareschi, «mettiamoci alla finestra a guardare le stelle: sono miliardi, non milioni. E sono tutte nostre».

Ma non sono qui a demonizzare il mondo dello spettacolo e le luci della ribalta. Al contrario, voglio andare ad attingere questa speranza proprio al mondo dello spettacolo. Voglio riprendere una bella canzone che canta il nostro Mario Rosini – nostro perché legato alla nostra città di Matera – una canzone, “Sei la vita mia”, che è anche una bella descrizione di ciò che chiamiamo speranza. Cantarla può restituirci ciò che ogni tanto sentiamo mancare sotto i nostri piedi. Può restituirci la speranza proprio perché ci fa riscoprire poveri.

«Sarei terra arida e sabbiosa se non ci fossi tu» canta Rosini. E allora andiamo incontro a quel qualcosa «che non so dire mai cos’è», prosegue la canzone, perché noi siamo lì, ad «aspettare di vedere il mare che ci divide ancora per un po’».

Dunque, come ci chiedevamo prima, dove abbiamo sbagliato? Abbiamo sbagliato a non dire qualcosa che anima la nostra fede e che dobbiamo necessariamente dire. Dobbiamo dire, dobbiamo annunciare che quello che ci manca ci è stato promesso. Che ciò che ci è stato promesso ci è stato dato. Che ciò che ci è stato dato è quindi una presenza. Perché non è un’assenza che noi rincorriamo, ma ciò che è realmente presente. Ed è più vicino a noi di quello che pensiamo. Pensiamoci, perché non è un’assenza, non è proprio una mancanza quello che ci manca.

Molti sono caduti nella suggestione del gesto plateale delle gemelle Kessler, vedendo nella loro uscita di scena, come un’ultima, poetica rappresentazione, impeccabile come tutte le loro esibizioni. Forse molti ne saranno rimasti incantati, tanto – Dio non voglia – da rimanerne attratti.

Io invece la vera poesia la vedo risplendere nei versi della canzone di Mario Rosini. Anche a voi, sarà infatti capitato anche a voi di avere una musica in testa, come cantava tanto tempo fa Mina. E io voglio cantarla quella canzone di Rosini che adesso ho in testa, per dire come è bello aprirsi alla realtà, aprirsi alla vita; per dire che «Sono un libro senza le parole / Quando manchi tu / Sono il frutto senza l’albero / Una barca senza pescatore».

La vera poesia è poter confessare segretamente, a quel qualcosa «che non so dire mai cos’è», tutta la nostra povertà; cui poter dire liberamente, nella nostra povertà: «Sarei terra arida e sabbiosa se non ci fossi Tu».

Kessler di  x-ray delta one
è distribuito con licenza CC BY-NC-SA 2.0 .

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Paolo Tritto

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