Aspettando l’ultima parola. Il Nobel per la Letteratura a László Krasznahorkai

La letteratura, per lo scrittore, «infonde una certa speranza nel fatto che la bellezza, la nobiltà e il sublime ancora esistono in sé e per sé. Può dare speranza anche a coloro nei quali la vita è viva appena. Fiducia – anche se sembra che non ve ne sia ragione»

Appena dopo il conferimento del Premio Nobel per la Letteratura allo scrittore ungherese László Krasznahorkai non sono stati pochi coloro che sono cascati nella bufala di un presunto scambio di battute apparso su X-Twitter dove si poteva leggere un post di congratulazioni a Krasznahorkai effettivamente pubblicato dal presidente ungherese Orban, con l’immediata risposta dello scrittore nella quale si ringraziava Orban ma si ribadiva la propria ferma opposizione alle idee politiche del presidente ungherese. In realtà la risposta proveniva da un account fake che molti hanno scambiato come vero, anche persone tutt’altro che sprovvedute.

L’episodio è degno di nota perché, in realtà, tutta la produzione letteraria di László Krasznahorkai mira a dimostrare proprio come oggi una certa comunicazione è stata sostituita dalla finzione, un po’ come è capitato nel citato post di X-Twitter. Tutto ciò che si comunica, sostiene Krasznahorkai, non è diventato altro che comunicazione di narrazioni prive del necessario riferimento alla realtà; sono qualcosa che il comunicatore costruisce per una autoreferenzialità. In parole povere, per star bene con se stessi.

In fondo, chi è cascato nella bufala dell’account fake di Krasznahorkai ha fatto esperienza proprio di questo. Una bufala che però proprio tale non è perché, in realtà, le fake news non sono propriamente delle volgari menzogne, non sono del tutto false, sono piuttosto news “non conformi all’originale”; sono news “apparentemente vere” e che, in un mondo delle apparenze come il nostro, finiscono poi per ottenere un certo grado di credibilità. Per esempio, realmente Krasznahorkai ha più volte espresso la propria opposizione a Orban.

In un’intervista allo scrittore Vanni Santoni, pubblicata sul sito Le parole e le cose, rilanciata da molti media in questi giorni, il Premio Nobel Krasznahorkai dice che l’uomo contemporaneo vive alla perenne ricerca di menzogne che lo possano rassicurare sulle proprie paure. Abbiamo bisogno, dice, «che ci mentano e ci dicano che andrà meglio, che sarà tutto più luminoso, che sarà più lungo ciò che è breve, che sarà più lento ciò che è veloce».

Sono invenzioni con le quali si vuole soffocare la consapevolezza della drammaticità dei tempi. Il tema ricorrente di László Krasznahorkai nelle sue opere, pubblicate in Italia da Bompiani, è infatti quello dell’apocalisse; il tempo che ci è dato da vivere, dice, è il duro tempo dell’apocalisse. Spiegava inoltre in un’intervista a Repubblica: «L’apocalisse non è un evento accaduto o che sta per accadere. Noi nell’apocalisse viviamo. L’apocalisse è già in questo momento. È sempre. È il contesto naturale del mondo umano».

Ma se si può trovare comunque nella finzione e perfino nella menzogna una rassicurante consolazione, se chiudere gli occhi sulla realtà ci fa stare bene, quale convenienza c’è per l’uomo nel credere, nell’inseguire la verità? Krasznahorkai ha compreso che doveva una risposta su questo ai suoi lettori e nel momento di apprendere del Nobel ha dichiarato: «Sono molto contento di aver ricevuto il Premio Nobel, soprattutto perché questo premio dimostra che la letteratura esiste di per sé, al di là di tutte le aspettative non letterarie, e che viene ancora letta. E a quelli che la leggono infonde una certa speranza nel fatto che la bellezza, la nobiltà e il sublime ancora esistono in sé e per sé. Può dare speranza anche a coloro nei quali la vita è viva appena. Fiducia – anche se sembra che non ve ne sia ragione».

Sembra la ripresa dell’idea del bene come realtà sussistente, non legata cioè alla caduca contingenza delle cose. Se di fronte alla realtà, anche a una realtà apocalittica come la nostra, siamo tentati di chiudere gli occhi, dobbiamo sapere che la realtà ha ancora qualcosa da darci. La vita merita ancora la nostra fiducia. In fondo abbiamo soltanto bisogno di qualcuno che ce ne faccia scoprire la sua incorruttibile bellezza. E la letteratura può fare questo.

Non è facile leggere le opere di László Krasznahorkai. Basti pensare alla smisurata lunghezza dei suoi periodi e alla sua avarizia nella punteggiatura. Una cosa che lo avvicina a Jon Fosse, Premio Nobel anche lui, due anni fa. E sarebbe interessante capire a questo proposito perché il Comitato del Nobel abbia preso così in odio la punteggiatura. Ma, a parte le battute, è vero ciò che raccomanda la traduttrice italiana dello scrittore, Dóra Várnai: non facciamoci scoraggiare dalla lunghezza delle frasi di Krasznahorkai. Frasi che vengono fuori “come la lava di un vulcano in eruzione” dice lui; frasi che possono durare pagine intere, interi capitoli e addirittura, senza alcuna interruzione come nel caso del romanzo Herscht 07769, per un intero libro.

Se però vediamo che lo scrittore sembri non riuscire ad arrivare alla fine di un discorso, in realtà, una ragione c’è. È perché alla fine – lo dice lui stesso – «il punto fermo sarà messo dal Signore. Se vorrà farlo». Infatti, il significato dell’apocalisse è proprio quest’ultima parola, questo giudizio finale.

La vita di scrittore di Krasznahorkai è iniziata in un giorno preciso. Nella vita dell’Ungheria comunista, dove – dice in un’intervista per il Corriere della Sera – si viveva con la consapevolezza che il giorno dopo sarebbe stato esattamente identico al giorno prima; tanto che al suo paese c’era un orologiaio che non amava molto il suo lavoro e che quando qualcuno gli portava un orologio da riparare perché andava avanti o indietro nell’orario, brontolando gli rispondeva: Perché, che differenza fa per lei? – Tanto un’ora sarebbe stata inevitabilmente uguale all’altra.

In quel tempo, lo scrittore era finito a fare il guardiano di porci; peraltro, nei turni di notte. In lui balenò proprio in questa oscura condizione l’idea, il dovere di scrivere. Quel giorno era nel porcile, mentre il sanaporcelle eseguiva il suo raccapricciante lavoro sulle povere bestie che strillavano. Tra l’altro, per questo particolare riportato nel suo romanzo d’esordio Satantango, qualcuno ha accostato lo scrittore ungherese al Carlo Levi del Cristo sì è fermato a Eboli. Comunque, Krasznahorkai ricorda nella citata intervista a Vanni Santini: «piano piano alzai gli occhi verso il soffitto del capannone. Tutto a un tratto su quel soffitto vidi comparire i primi raggi del sole che albeggiava. Era un sole marrone. Rientrato in casa decisi di scrivere un libro. Quel libro divenne Satantango».

Chiudendo l’intervista, Santini gli chiede: «Perché continuiamo a sperare che qualcuno ci salvi?» Krasznahorkai gli risponde: «Cos’altro potremmo fare? Noi non siamo in grado di salvarci. Le contingenze alle quali siamo esposti, dalle quali dipendiamo, tra cui la morte, ci appaiono troppo pesanti, troppo smisurate».

Ma poi, è troppo tardi per tentare altre strade alla ricerca di un modo per salvarsi da soli. Il tempo si è fermato e l’apocalisse è già iniziata. «È già in questo momento. È sempre».

Miklós Déri
CC BY-SA 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0, via Wikimedia Commons

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