Giorno speciale anche a Irsina. Domenica 20 luglio, mons. Ambarus nella “periferia diocesana”

Un incrocio fitto di sguardi e una miriade di benedizioni. Ottimi auspici nei saluti che vescovo, sindaco e parroco pronunciano. Irsina è la "periferia" tanto cara a mons. Benoni.

Un applauso lungo e scrosciante irrompe nel silenzio della domenica mattina su Corso Matteotti in prossimità della Porta di Sant’Eufemia. Sono le 10:50 e don Ben vi giunge con il vicario generale, don Angelo Gioia che è alla guida della sua Golf bianca.

Non un secondo insediamento episcopale: la Diocesi è unica, Matera-Irsina. Il secondo insediamento di mons. Benoni sarà nel pomeriggio, a Tricarico. Quella di domenica mattina a Irsina è solo una visita nel centro della Diocesi che ospita la concattedrale, seconda parrocchia per importanza nella Diocesi, dove mons. Benoni presiede l’eucaristia il secondo giorno del suo episcopato.

Ad attenderlo c’è il clero irsinese (i parroci don Giuseppe Diperna e don Giuseppe Calabrese, i parroci emeriti don Gerardo Forliano e don Vito Nicola Mensano e don Giuseppe Ditolve, che di Irsina è originario), il cerimoniere episcopale don Nino Martino e un seminarista, gli amministratori locali e una rappresentanza della cittadinanza: il comitato feste, gli anziani, i bambini…

Sguardi, sorrisi, abbracci e una miriade di benedizioni: un corteo festoso che si dirige sino alla chiesa madre dove i bambini della scuola elementare, assieme alle loro insegnanti, fanno una foto con il nuovo vescovo.

Accolto da un altro applauso del popolo di Dio riunito in catterale per l’unica eucaristia che oggi viene celebrata a Irsina, mons. Benoni varca l’ingresso della concattedrale, bacia il crocifisso che gli porge il vicario, asperge l’assemblea e poi si ferma in ginocchio presso il tabernacolo.

Un cordiale benvenuto prima della celebrazione

“Non vi rendete conto di quanto siete stati fortunati: don Ben è una persona eccezionale”: questo il messaggio che il neosindaco di Irsina, Giuseppe Candela, ha ricevuto un mese fa da un amico di famiglia e ora rende pubblico. “Lei viene dalle periferie e ci sentiamo fortunati perché siamo sicuri che lei avrà un occhio particolare per questa realtà, di cui siamo entrambi all’inizio di un percorso di servizio”, continua il sindaco. “Le offriamo la nostra più sincera collaborazione, per alimentare un tessuto sociale più coeso”. E insieme a un’assessora, il sindaco offre al vescovo l’opera di un artigiano locale rappresentante Sant’Eufemia e la concattedrale, quanto di più caro gli irsinesi abbiano.

In effetti dalle periferie romane veniva anche don Ben, che risponde al saluto del sindaco ricordando quando era parroco dei SS. Elisabetta e Zaccaria, al confine con il comune di Sacrofano, e venne a trovarli Papa Francesco. Io dissi: “Santità, noi siamo in periferia, in pole position: siamo i primi che incontra chi viene a Roma!”, e il papa confermava che la periferia capovolge le cose, è il punto da cui si vede meglio la realtà, è il luogo in cui ci si può mettere meglio in gioco.

Anche il parroco, don Giuseppe Diperna, ringrazia il vescovo per aver scelto quella domenica all’inizio dell’episcopato, e non un altro giorno, per visitare la comunità irsinese.

E mons. Ambarus non manca di porgere un ringraziamento ai presenti per l’accoglienza e “il cammino che faremo insieme. Tutto il resto poi ce lo indicherà il Signore”. Un sincero desiderio di relazione di mons. Ambarus con il gregge materano-irsinese traspare non solo da queste parole, non di circostanza, ma anche dagli sguardi che si incrociano, dalle mani che si poggiano sulle teste dei fedeli o ne sfiorano la fronte o il volto, in tanti momenti della mattinata, come durante l’offerta dei doni.

Una liturgia semplice – il vescovo non porta né mitria né pastorale – ma solenne: molte parti della celebrazione vengono cantate, compresa la pericope evangelica – da don Giuseppe Calabrese, parroco della chiesa dell’Immacolata –, si utilizza l’incenso, l’assemblea partecipa attivamente.

Mons. Benoni: “Ospitare, accogliere, rigenerare qualcuno: il beneficio è sempre bidirezionale”

Per dire l’atteggiamento dell’ospitare o dell’essere ospitati abbiamo una sola parola: c’è l’ospitante e c’è l’ospitato. […]

L’ospitalità, l’accoglienza è sempre bidirezionale: si ospita e si è ospitati, si aiuta e si è aiutati, si rigenera l’altro e si è rigenerati dall’altro. Quando non si verifica questo bisogna fare attenzione, perché vuol dire che si esercita soltanto un potere: il potere di fare, il potere di dare. Ma se l’altro non ti scalfisce, vuol dire che qualcosa non torna.

Questo il messaggio al centro dell’omelia, cordiale, incarnata nella vita e nell’oggi – epoca che soffre di un deficit di ascolto e in cui urge intessere “relazioni corte” – ispirata dalla liturgia della Parola del giorno i cui protagonisti sono Abramo, che viene visitato da Dio, e Marta e Maria, che vengono visitate da Gesù.

E poi:

Tra Marta e Maria non c’è da fare una scelta: o Marta, o Maria.
Possiamo essere Marta proprio perché siamo Maria.
Non possiamo essere Marta, una Chiesa del fare se non siamo anche Maria.

Di seguito il testo completo dell’omelia del vescovo.

Omelia dell’Arcivescovo di Matera-Irsina mons. Benoni Ambarus
Concattedrale di Irsina, domenica 20 luglio 2025

Non so se ci avete mai fatto caso, ma per dire l’atteggiamento dell’ospitare o dell’essere ospitati abbiamo una sola parola: c’è l’ospitante e c’è l’ospitato. Sembra quasi che non ci sia un’altra parola.

E io la trovo una cosa molto bella questa, perché non c’è mai una dimensione soltanto nell’incontro tra le persone. Abbiamo ascoltato nella prima lettura Abramo sta a prendersi un po’ di fresco sulla soglia della tenda, nell’ora calda, e le tre persone che si avvicinano diventano per lui l’occasione di riattivarsi. Per cui va incontro a loro e li supplica: “Per favore, non andate oltre: permettetemi di ospitarvi”.

E gli prepara tutto il ben di Dio.

Abramo, attiva anche la moglie Sara, mette i suoi ospiti a loro agio, nelle condizioni di ristorarsi, di rinfrescarsi, di nutrirsi.

Ma poi, per Abramo arriva la sorpresa grande: lui ha fatto qualcosa per loro tre, per questi tre personaggi misteriosi, ma alla fine è lui che riceve un grande dono. E qual è questo dono? Qualcosa che ha a che fare con le sue aspettative più profonde. Lui era un uomo sposato da tanti anni, Dio gli aveva promesso un figlio che non arrivava più, e c’era il rischio che la sua dinastia, la sua tribù, il suo clan, quasi non avesse un erede, destinato quindi a scomparire. E i tre – che poi sappiamo che è Dio stesso che si manifesta ad Abramo – gli fanno in regalo questa profezia: il prossimo anno, quando torneremo, tu avrai una discendenza.

Ecco, quindi, che Abramo, che ha ospitato, diventa il beneficiato più grande: riceve lui l’adempimento delle sue attese profonde.

L’ospitalità, l’accoglienza è sempre bidirezionale: si ospita e si è ospitati, si aiuta e si è aiutati, si rigenera l’altro e si è rigenerati dall’altro. Quando non si verifica questo bisogna fare attenzione, perché vuol dire che si esercita soltanto un potere: il potere di fare, il potere di dare. Ma se l’altro non ti scalfisce, vuol dire che qualcosa non torna.

E anche nel Vangelo abbiamo una situazione simile: Gesù si lascia ospitare dalle due sorelle, Marta e Maria – verosimilmente stiamo parlando della famiglia di Lazzaro, ma qui si parla solo delle donne, chissà perché: forse perché l’ospitalità, l’accoglienza è molto più femminile. Non lo so io, però Gesù si lascia ospitare da loro – ed è interessante, abbiamo ascoltato, come le due sorelle accolgono Gesù ciascuna a modo suo: Marta si dà subito da fare, perché Gesù con i suoi discepoli – non ci viene detto quanti sono, ma come si dice, “magnavano” – erano stanchi per il viaggio e Marta lo sa che hanno bisogno di mangiare, quindi si attiva, come Abramo, a dare il meglio, a preparare il meglio.

Apparentemente, Maria non pensa alla pace nell’ospite: si preoccupa di un’altra cosa, non di offrire al Signore, ma di assorbire dal Signore tutto, ogni parola, ogni gesto, ascoltare Gesù. Marta accoglie Gesù facendo fare tutti i preparativi, offrendo delle cose, Maria accoglie Gesù riconoscendolo profondamente sino a dire: “Per me è importante non perdere da te Gesù nulla”.

Non so se qui capita, sono sicuro che qui non capita [e ride], ma a Roma capitava che tu vai in una famiglia, ti metti, mangi, soprattutto lei si dà tanto da fare, alla fine sparecchia la tavola, lava pure i piatti. E quando ha finito viene a sedersi ed è finita la cena. E dice: “Ma già te e ne vai?”. È mezzanotte, c’ho il coprifuoco io!

Marta è attiva con le cose e accoglie Gesù, perché a lei piace trattare bene Gesù; a Maria piace stare soltanto con Gesù. E quando Marta chiama potentemente in causa Gesù: “Ma Gesù, tu non mi vedi, non ti accorgi di me? non vedi che sono stressata, che sono stanca, che ho troppe cose da fare, per te, per stare bene? non t’importa che mia sorella mi ha lasciata sola?”, sembra che abbia un problema a parlare direttamente con la sorella: bastava fare un segno, alzati, vieni… No, chiama in causa Gesù, a fare da mediatore familiare. E Gesù che cosa dice? Abbiamo ascoltato: “Marta, m’importa di te. Ti vedo, vedo che sei stanca, m’importa che sei sola, m’importa che sei affannata, conosco i tuoi affanni, ma proprio per questo, Marta, tua sorella ha scelto la parte migliore. Se ti vuoi rigenerare con me, se mi vuoi accogliere veramente, il mangiare, il fare le cose, è la parte secondaria. Lasciati prima ospitare da me, lascia prima che io rinfranchi e rigeneri il tuo cuore”.

Sembra quasi che Gesù abbia accettato l’ospitalità come un pretesto, perché lui possa rigenerare le persone. Ed è questa la nostra vita spirituale, anche il nostro essere Chiesa. Ogni volta che varchiamo la soglia della Chiesa, dell’Eucaristia, arriviamo carichi di vita, carichi di situazioni, di desideri, di speranze, di delusioni, di dolore, sarebbe tanto bene che prima di varcare la soglia della Chiesa, venissimo con l’offertorio – lasciatemi passare questo termine –, l’offertorio spirituale, e dire: “Signore, oggi ti porto questo carico, ho bisogno di sedermi ai tuoi piedi e lasciarmi rigenerare”, perché questa è la parte migliore: sederci ai piedi di Gesù e portare il carico della nostra esistenza. Poi, ospitiamo Gesù, certo: nel quotidiano siamo chiamati ad ospitare gli altri, e più una persona è stanca, magari aggressiva, magari affaticata nella vita, più sono chiamati ad essere ospitali per quelle persone. Ma non si può dimenticare che anche noi, tutti, abbiamo bisogno innanzitutto di essere ospitati dal Signore Gesù. Questa è la parte migliore.

Marta dice: “Gesù, dì a mia sorella: dille di aiutarmi così da dividere un po’ i compiti”. Dicevo ieri sera: un po’ per uno fa bene a tutti. Sì, ma se non decido dentro di me di lasciarmi ospitare dal Signore, di deporre nelle sue mani i pesi della mia vita, rischio di perdere la parte migliore.

Perché il Signore è venuto e si è manifestato nella nostra vita per questo: per rigenerarci. E per cui ogni volta che viviamo i sacramenti, l’Eucaristia, qualsiasi sacramento o sacramentale, ogni volta che ascoltiamo la Parola di Dio, noi permettiamo al Signore di ospitarci nel suo cuore. Ed è la parte migliore.

Vedete, questa mi sembra sia una delle vocazioni fondanti della Chiesa oggigiorno: ospitare ed essere ospitati, con gli uomini e le donne di quest’oggi. Ospitare il Signore e lasciarci ospitare dal Signore.

Però una Chiesa – le chiamerei così anche quest’oggi – dalle “relazioni corte”, dove l’altro lo guardi prima di dire: “Come stai?”, e decidi di ascoltare la risposta. Fateci caso, oggigiorno, a volte facciamo quasi fatica a chiedere all’altro: “Come stai?”, perché ci sono talmente tante cose che speriamo lui non mi risponda, perché se mi risponde io non ho tempo. Per cui, abbiamo trasformato il “Come stai?” in “Tutto bene?”. Così, nel dubbio, metto le mani avanti ed è più facile rispondere: “Sì”.

Mentre immaginiamoci che Gesù tutti i giorni, dalla mattina alla sera, ci guarda profondamente e dice: “Ma come stai?”. Io: “Ho fatto questo, quello…”. “No. Come stai?”. E mi sembra questa una modalità di essere Chiesa dalle “relazioni corte”: a guardarci tutti gli uni gli altri e chiederci: “Come stai?”. Perché un genitore quando chiede ai ragazzi, tornati da scuola: “Com’è andata oggi?”, “Bene”; “E che avete fatto?”, “Niente”.

Sono le domande e le risposte di rito. Ma poi se questo genitore guarda in faccia il figlio e vede che magari che dallo sguardo c’è qualcosa che non va, chiede: “Aspetta un attimo, come stai?”. “Beh, come stai?”. Poi, dopo la terza domanda il ragazzo comincia a preoccuparsi: “Come mai?”. Ma la Chiesa dalle “relazioni corte” la si vive perché il Signore fa questo con noi.

Ed è questo anche il compito che abbiamo come Chiesa, oggigiorno, in questo nostro mondo così frastagliato, frastornato, a volte conflittuale… Essere uomini e donne di ascolto, capaci di ospitare l’altro. Anche se l’altro a un certo punto senza preoccuparsi, parla, parla, parla – come si dice a Roma, “non sputa”, cioè non si ferma mai – ascoltiamolo, perché stiamo vivendo un’epoca di deficit di ascolto.

Per cui, ecco, tra Marta e Maria non c’è da fare una scelta: o Marta, o Maria.

Possiamo essere Marta proprio perché siamo Maria.

Non possiamo essere Marta, una Chiesa del fare se non siamo anche Maria.

Perché poi diventano problemi: ecco, lasciamoci ospitare dal Signore quest’oggi, lasciamoci rigenerare, perché uscendo possiamo fare anche noi altrettanto!

“Pregare gli uni per gli altri, soprattutto per i sacerdoti”. Questa la richiesta che il vescovo indirizza ai presenti alla fine della celebrazione – sottolinea chiaramente: “La preghiera per gli altri dilata il cuore proprio e di Dio” -, assieme all’invito alla gratitudine per mons. Antonio G. Caiazzo e don Angelo Gioia, che hanno lavorato prima di lui rispettivamente come vescovo e amministratore diocesano: per loro chiede un forte applauso.

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Giuseppe Longo

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