Due importanti servizi giornalistici hanno recentemente riaperto una dolorosa e dimenticata pagina di storia riguardo a drammatiche vicende che hanno investito violentemente la Chiesa nell’Alto Medioevo, arrivando a sconvolgere anche il nostro territorio di Matera.
Con un articolo pubblicato nello scorso 5 ottobre a firma di Lucio Brunelli, l’Osservatore Romano ha riproposto il caso della distruzione dell’abbazia benedettina di San Vincenzo al Volturno, nel territorio dell’attuale Molise, avvenuta nel 10 ottobre dell’anno 881 a opera di una banda di saraceni.
Il 19 ottobre scorso, due settimane dopo la pubblicazione dell’Osservatore, anche Rai Uno mandava in onda, nella programmazione del mattino, un lungo servizio sulle scoperte archeologiche relative alla distruzione di questo importante sito monastico.
Si tratta di un sito che rappresenta qualcosa di unico nell’archeologia medievale, perché San Vincenzo al Volturno era ben più di una semplice abbazia. Per la sua vastità, ma non solo per questo, può essere considerata una vera e propria città-monastero.
L’abbazia, che sorgeva sulle rive del fiume Volturno, fu letteralmente rasa al suolo e depredata di tutti i suoi beni; tutti i cinquecento monaci che vi risiedevano vennero uccisi senza pietà, tanto che – scrive Brunelli – «le acque limpide del Volturno rosseggiarono del sangue dei monaci».
Le vicende di questa abbazia nell’Alto Medioevo, nonostante sia ben distante geograficamente, hanno riguardato, come si diceva, la nostra città di Matera e la Chiesa locale. Perché questa ondata di violenze e di repressioni investì la città dei Sassi, prima incendiata e poi completamente distrutta, sebbene ciò non sia avvenuto in questo caso a causa delle dirette violenze perpetrate dai saraceni quanto per il tentativo da parte dei franchi di Ludovico II di sradicare la loro presenza dal territorio.
Altro nesso delle vicende della comunità monastica del Volturno con la città di Matera vi fu perché, circa un secolo dopo i fatti dell’881, dalla città lucana arriverà un monaco che reggerà la rinata Abbazia, quel sant’Ilario da Matera che in quella comunità monastica fu abate per oltre trent’anni.
Il tentativo di conquista della penisola italiana da parte degli arabi aveva prodotto una profonda spaccatura nella società del meridione italiano e all’interno della Chiesa stessa. Se sulle coste tirreniche la convivenza con gli arabi fu relativamente pacifica, per la prevalenza degli interessi commerciali che nei porti della Campania erano venuti a intrecciarsi con la Sicilia islamica, ben diverso fu il caso della costa adriatica dove nell’847 si era stabilita una presenza islamica particolarmente combattiva e ostile, l’Emirato di Bari. Non molto diverso da ciò che noi oggi chiamiamo Stato islamico, questo Emirato era diventata la base per le scorrerie in quella parte del territorio meridionale che era sotto l’influenza del ducato longobardo di Benevento, massimo centro di potere politico dell’epoca nel Mezzogiorno italiano.
Come ricordava lo storico dell’emirato barese Giosuè Musca nel volume “L’Emirato di Bari”, recentemente rieditato e che abbiamo recensito su questo giornale, nelle loro scorrerie i saraceni saccheggiavano ogni cosa, particolarmente i beni della Chiesa. Ma ben più lucrativa era la loro attività predatoria per ridurre in schiavitù la popolazione cristiana e per il rapimento dei bambini. Deportati lungo il tracciato della via Appia – Matera era probabilmente un’importante stazione di posta per questi loschi traffici – i prigionieri erano imbarcati a Taranto, diretti prevalentemente alle coste nordafricane, oppure in Spagna e in Sicilia, dove gli adulti andavano incontro a un destino di schiavitù e i bambini, sradicati dalle proprie famiglie, erano forzatamente educati alla fede islamica.
Ricorda sempre Musca che il monaco franco Bernardo il quale insieme ad altri due pellegrini, a metà del IX secolo, era di passaggio da Taranto dove doveva imbarcarsi alla volta della Terra Santa, nel suo “Itinerarium in loca sancta”, racconta di aver assistito in questo porto alla deportazione di novemila schiavi beneventani stipati su sei navi.
Si può capire quale genere di sconvolgimenti ciò provocasse nella società meridionale. Spaventoso fu il cedimento della Chiesa locale per il tradimento del clero, in parte rifugiatosi nelle più tranquille diocesi campane, in parte assimilatosi ai costumi saraceni, tanto che si vedranno anche ecclesiastici – ricorda Musca – vivere “secondo le leggi e le consuetudini dei Saraceni”, perfino convivendo con ancelle comprate al mercato degli schiavi. Non raramente le sedi vescovili erano abbandonate dai loro titolari.
In questo contesto, si comprende bene quanto afferma l’Osservatore Romano quando ricorda che la distruzione dell’abbazia molisana se fu condotta per mano dei saraceni, tutto questo ebbe come preciso mandante il vescovo di Napoli, Attanasio. E ciò quando ormai i saraceni avevano già da dieci anni abbandonato la penisola, dopo che le armate cristiane avevano riconquistato Bari e posto fine all’emirato.
Distrutta l’abbazia di San Vincenzo al Volturno, se ne persero le tracce per circa mille anni. Fino a quando un contadino del posto ne fece la scoperta dopo essere accidentalmente caduto in una buca dalla quale notò un varco per accedere agli inesplorati ambienti monastici, rimasti sepolti in seguito alla devastazione.
Spetterà all’archeologo inglese, allora giovanissimo, Richard Hodges, riportare alla luce questi resti. Hodges si fece guidare in questo da uno straordinario monaco-ingegnere dell’abbazia di Montecassino, padre Angelo Pantoni. Fu questo monaco, riferendosi a San Vincenzo al Volturno, a parlare della Pompei del Medio Evo, che poi sarà anche il titolo del volume curato da Richard Hodges.
«Era stato padre Angelo Pantoni a coniare per primo questa espressione, Pompei medievale» spiega Hodges a Lucio Brunelli, «ma è un’espressione giusta, il sito archeologico ci permette infatti un’immersione nella vita quotidiana di una città monastica, com’era nel VIII e IX secolo al tempo della rinascita carolingia, e questo perché il tempo qui si è fermato, per un evento improvviso e traumatico, come a Pompei». Tutto era rimasto fissato nel tempo, in quella tragica giornata del 10 ottobre 881. I ricercatori sono stati in grado di ricostruire persino cosa avevano mangiato i monaci nell’ultima cena, prima del saccheggio.
Se in quegli anni molti esponenti del clero di questa parte della penisola italiana si erano resi responsabili di un vero tradimento della Chiesa, possiamo vedere nello stesso tempo come la rete delle comunità monastiche aveva saputo tenere viva la fede cristiana e la disciplina; una rete fitta, ben distribuita sul territorio e tanto solida da poter rappresentare nei secoli successivi a buon diritto una Chiesa rinnovata, anzi risuscitata.
Come se quei monaci altomedievali avessero il presentimento del destino cui andavano incontro, nella cripta dell’abate Epifanio di San Vincenzo al Volturno possiamo notare come tutto il ciclo pittorico che viene rappresentato dagli affreschi sia ispirato al testo dell’Apocalisse. Ma se ne parliamo qui è perché, guardando questi affreschi, c’è un particolare che non sfuggirà all’osservatore di Matera: la sorprendente affinità con la cripta materana del Peccato Originale. Per quella che è l’affinità stilistica delle pitture in generale, ma soprattutto per un preciso elemento.
Si tratta, come osserva Franco Valente, attento studioso dell’abbazia e attualmente curatore del sito monastico, «della raffigurazione di un campo di papaveri che si sviluppa senza soluzione di continuità a collegare tutte le scene rappresentate nell’ambiente sotterraneo con il preciso intento di simboleggiare una dimensione spaziale extraterrena e più precisamente paradisiaca».
L’osservatore materano avrà già compreso che alla stessa maniera si potrebbero leggere le scene degli affreschi della cripta del Peccato Originale. Franco Valente prosegue: «devono farci riflettere alcune straordinarie analogie con le pitture murali, anch’esse coeve, della cripta detta del Peccato Originale di Matera, specialmente nella trattazione dei motivi floreali che risultano eseguiti in maniera pressoché identica a quelli volturnensi. Per quante ricerche abbiamo potuto fare, non siamo stati capaci di ritrovare nella tradizione pittorica medioevale rappresentazioni floreali in tutto simili sul piano stilistico a quelle di S. Vincenzo, ad eccezione di quelle materane».
Riguardo alle affinità tra la cripta di San Vincenzo al Volturno e quella materana del Peccato Originale, deve anche far riflettere la corrispondenza che si può cogliere riguardo al racconto biblico che viene rappresentato nei reciproci affreschi. Se nel sito di Matera vediamo la rappresentazione della creazione di cui parla il Genesi e che culmina nella scena della caduta di Adamo, in quello molisano vediamo rappresentato il libro dell’Apocalisse con il trionfo di Cristo, nuovo Adamo, e la resurrezione dei corpi. L’inizio e la fine cioè del racconto biblico.
Possiamo vedere un prestabilito disegno in tutto questo? Tra Matera e il Volturno si è voluto creare un esplicito nesso? Chi può dirlo? Anche se i pastori che ritornavano ai pascoli dell’Appennino molisano con le loro mandrie attraverso i tratturi della transumanza, dopo aver svernato nelle terre materane, di questo nesso tra l’inizio e la fine dell’umano cammino suggerito dal tracciato tra Matera e il Volturno, potevano avere una certa consapevolezza.
Un numero incalcolabile di frammenti di affreschi sono stati ritrovati dagli archeologi a San Vincenzo al Volturno nei lavori di scavo – si parla di settecentomila frammenti – dopo essere rimasti sepolti per mille anni. Come si riferisce nel servizio andato in onda su Rai Uno, sarà necessario lavorare perché questi frammenti siano ricomposti. Un’impresa giudicata umanamente impossibile. Ma forse oggi, con l’Intelligenza artificiale, questa impresa impossibile vedrà forse una concreta realizzazione.
Incrociamo le dita perché siamo di fronte a qualcosa di assolutamente straordinario. Per la storia dell’arte, per la storia del monachesimo, ma soprattutto per la fede. Guardando quei settecentomila frammenti rimasti sepolti e dimenticati sotto terra, non si può non pensare a quel seme di cui parla il Vangelo che nel terreno doveva necessariamente morire per poter rinascere a vita nuova.
Proprio questo vogliono dirci quei papaveri rossi riportati lungo tutte le pareti affrescate degli affreschi, di cui parla Valente. Quei papaveri che rosseggiano i nostri prati, dopo che i loro semi hanno atteso pazientemente nell’oscurità del sottosuolo l’arrivo della primavera. Come rosseggiava il fiume Volturno per il sangue dei martiri in quella apocalittica giornata del 10 ottobre dell’anno 881 quando, nell’oscurità dei tempi, la spada dei saraceni volle spazzare via – al loro sguardo miope sembrò per sempre – la presenza cristiana.
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