L’equivoco della vigile attesa

"Fare di più non significa fare meglio": non sembrano credere a questo slogan della Slow Medicine i sostenitori delle cosiddette "cure domiciliari precoci" per i malati di Covid.

Una parte consistente dell’opinione pubblica mondiale manifesta oggi nei confronti della scienza ufficiale una scarsa considerazione se non addirittura un’aperta ostilità arrivando a negare quelle che un tempo sarebbero state considerate evidenze inoppugnabili.

Per sconfiggere la pandemia gli scienziati dovranno cercare degli alleati tra gli esperti della comunicazione: è l’uso delle parole che fa infatti la differenza.

Poniamo di dover lanciare una campagna promozionale su una specifica vaccinazione per sostenerne la necessità: basteranno i soli argomenti scientifici?

Che appeal avrebbe sulla pubblica opinione una vaccinazione “raccomandata”?

L’aggettivo potrebbe far pensare agli oscuri interessi di qualcuno che si nasconde dietro il manto della scienza. Se la vaccinazione fosse resa “obbligatoria” si griderebbe alla libertà violata, se fosse presentata come “suggerita”, appellandosi alla libera e consapevole scelta del cittadino, la stessa vaccinazione potrebbe ricevere migliore accoglienza.

In merito alle cure contro il Covid 19, faremo poi un cenno a quelle precoci, l’approccio comunicativo a mio avviso non è stato dei migliori: nella prima fase dell’emergenza pandemica, forse per il timore di creare allarme sociale, si è insistito poco sull’assenza di terapie di dimostrata efficacia che non fossero quelle appena necessarie a limitare i danni. Si è preferito dare voce di volta in volta a presunte terapie rivoluzionarie come quando, il giorno di Pasqua 2020, fu annunciata la disponibilità di un farmaco prodigioso, “la molecola di Dio”, che altro non era se non la vecchia eparina!

Poco spazio ebbero sui media le ricerche sugli anticorpi monoclonali della cui efficacia nelle fasi precoci della malattia ebbe ad avvantaggiarsi l’ex presidente americano Trump: la pubblicazione di una sua foto prima e dopo il ricovero in ospedale sarebbe bastata alla pubblica opinione per farsi un’idea della loro utilità.

Oggi che queste cure, pur costose e di provata efficacia, sono a disposizione di tutti sorprende che anche una parte della classe medica ne ignori l’utilità.

Sul piano comunicativo l’uso improprio delle parole ha fatto sì che una Circolare del Ministero della Salute, e con essa i suoi estensori, fosse chiamata a stare in giudizio in un’aula di tribunale di fronte a quanti probabilmente non condividono il principio della Slow medicine secondo cui “Fare di più non significa fare meglio”.

Si fosse usata l’espressione “sorveglianza attiva” (dei pazienti) piuttosto che “vigile attesa” (degli eventi) si sarebbe evitato di pensare che fosse messo in discussione il diritto costituzionale all’assistenza e alla cura.

A conti fatti dalle cure domiciliari precoci non trarrebbero vantaggio né l’80% dei contagiati con infezione poco o nulla sintomatica né quel 5% di pazienti necessitanti piuttosto di una precoce ospedalizzazione.

Del restante 15% di pazienti con infezione da Covid a rischio di progressione e di tutti i pazienti fragili e cronici ha continuato a farsi carico, durante tutto il lockdown e senza mai cedere le armi, la medicina di famiglia.

Il dibattito sull’equivoca espressione della “vigile attesa” ha finito per portare sul banco degli imputati più che la scienza in quanto tale nuovamente la medicina del territorio, accusata di vile diserzione di fronte al nemico pandemico.

Ad un paziente particolarmente molesto, che le ricordava che la sua fosse una missione più che una professione, una nostra collega – impegnata 8 ore al giorno in ambulatorio – replicò di aver scelto sì la missione ma non il martirio!

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Erasmo Bitetti

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