Nagasaki, 9 agosto 1945, la cattedrale, la bomba, il dottor Nagai

La clamorosa conversione del pilota bombardiere Leonard Cheshire

Il bombardamento atomico di Nagasaki, che seguiva di tre giorni quello di Hiroshima, ha un particolare significato per la vita della Chiesa. Nagasaki non era l’obiettivo primario di questa seconda bomba, ma per le avverse condizioni meteo il bombardiere fu costretto a dirottare da Kokura, dov’era diretto, verso questa città.

Anche Nagasaki, quella mattina del 9 agosto 1945, era coperta da una spessa coltre di nubi e, secondo gli ordini ricevuti dalle autorità militari, l’ordigno doveva essere sganciato su un obiettivo visibile. Gli equipaggi della formazione alleata che sorvolava la città avevano quasi desistito dal bombardamento. Erano fuori bersaglio di un chilometro e mezzo quando però si notò uno squarcio tra le nubi. Si era andati oltre l’obiettivo prestabilito, ma non si era ancora troppo lontani.

Quella mattina, il capitano Kermit Beahan che era a bordo del bombardiere Bockscar prontamente urlò: «Lo vedo! Lo vedo!» Quindi prese il controllo dell’aereo e affrettò le operazioni per il rilascio dell’ordigno. Si trattava di manovre che richiedevano dai tre ai cinque minuti, ma Beahan riuscì a ultimarle in una manciata di secondi. Poi riprese a urlare con il suo accento texano: «La bomba è fuori! La bomba è fuori!»

La bomba era finita nella valle di Urakami che, per la sua particolare morfologia, contenne gli effetti della bomba in un perimetro relativamente ristretto. Urakami era il quartiere cattolico della città, la più grande comunità cattolica del Giappone; la bomba colpì in pieno la cattedrale attorno alla quale i cattolici della città avevano le loro abitazioni. Soltanto tra questi, si conteranno 8.500 vittime.

Poco distante dall’epicentro dell’esplosione, sorgeva la facoltà universitaria di medicina. Qui era al lavoro Paolo Takashi Nagai, medico radiologo e docente universitario, un uomo che dopo un itinerario spirituale particolarmente sofferto aveva chiesto il battesimo ed era stato accolto nella locale comunità cristiana.

Recentemente, nella nostra diocesi è stata riproposta in incontri pubblici, anche da parte dell’Ufficio diocesano per la Cooperazione missionaria, la figura di questo grande convertito giapponese. Takashi Nagai, che subì i pesanti effetti del bombardamento atomico, cui sopravviverà per qualche anno, diede una lettura particolare del tragico evento.

Scrisse Nagai: «Urakami è stata colpita e sacrificata per un misterioso concatenarsi di circostanze [il dirottamento del bombardiere, ndr] in cui io scorgo la manifesta volontà di Dio. Urakami fu immolata come il mistico Agnello senza macchia in espiazione del cieco odio che ha dilaniato l’umanità in questa Seconda guerra mondiale, proprio perché Urakami costituiva, da secoli, un’oasi cristiana nel Giappone. Com’è possibile non scorgere un nesso profondo tra la fine della guerra e la distruzione di Urakami?»

A qualcuno questa visione può sembrare un’illusione. O, al massimo, un’interpretazione dettata dalla fede e che rimanda il suo compimento alla fine dei tempi. A qualcuno la fede del dottor Nagai può sembrare vana. È così?

Un giorno, in una cittadine inglese, squillò il telefono di Leonard Cheshire. Chiamavano da un ospedale poco distante dove c’era un malato terminale che doveva essere necessariamente dimesso – era ormai soltanto un costo per la struttura, senza alcuna speranza di tornare a una vita attiva – ma che non sapeva dove andare. Il suo nome era Arthur Dykes, un malato di cancro che non aveva né casa né nulla, che non aveva un posto nemmeno dove poter aspettare la morte.

Avevano provato a cercare qualcuno disposto a prendersi cura di lui, ma il povero Arthur non aveva parenti o amici. A lui era passato per la testa soltanto il nome di Leonard Cheshire presso il quale aveva fatto per un certo tempo il guardiano dei porci e al quale l’infermiera appunto aveva telefonato per verificare la disponibilità a farsi carico della necessità di trovargli una sistemazione idonea. Era il 22 maggio 1948. Leonard accolse Arthur, attivandosi per cercare una clinica privata che lo accettasse. Cercò ma purtroppo non trovò nulla e Arthur rimase definitivamente a casa sua.

In quel momento Cheshire non si trovava nelle condizioni di accogliere alcuno, tanto meno qualcuno bisognoso di tutto; aveva un sacco di debiti per un’operazione fallimentare cui era andato incontro e l’unica preoccupazione che aveva era quella di vendere il palazzo signorile di Le Court, ricevuto in eredità, e così pagare i creditori.

In quel momento Cheshire non poteva provvedere alle medicine e nemmeno garantire gli alimenti. Ma, forse senza sapere nemmeno perché, Leonard aprì la sua porta a quel derelitto, con l’unica possibilità di sfamarlo con qualche verdura che si poteva raccogliere nel giardino. Non poteva prevedere che appena un anno dopo, presso la residenza di Le Court, prenderanno posto ventiquattro ospiti, particolarmente disabili di cui il sistema sanitario non si prendeva cura.

Tante erano le domande che Leonard Cheshire aveva dentro in quel drammatico momento. Fu da Arthur Dykes che sorprendentemente arrivarono le risposte che cercava alle domande che si poneva. Il povero Arthur aveva ormai abbandonato la sua fede religiosa; nonostante ciò, sapeva ancora ripetere a memoria le formule del catechismo cattolico, come le aveva imparate da bambino. Le sue risposte impressionarono fortemente Leonard che ricorda: «Se, per esempio, gli domandavo: “Come spieghi la sofferenza?”, lui replicava, all’incirca: “La spiegazione è nella croce”. Ora, io non dico che quel concetto mi fosse già chiaro; ma era il tipo di risposta che va dritto al cuore, e ben diverso dalle riflessioni teologiche che mi offrivano gli altri. Gli chiesi: “Qual è lo scopo della vita?”, e lui mi disse: “Amare e servire Dio in questo mondo, Leonard; e nell’altro mondo stare con lui nella sua casa”. Lo diceva in una maniera molto attraente, semplice e persuasiva. Non aveva malizia, non era nella sua natura. Forse veniva da una famiglia contadina dell’Irlanda. I discorsi gli sgorgavano dall’animo».

Il capitano Leonard Cheshire, uno dei militari inglesi più decorati della Seconda guerra mondiale, in servizio presso la RAF, l’aviazione militare del Regno Unito, era a bordo di uno degli aerei che bombardarono Nagasaki. Proprio lui, difronte alle tante difficoltà incontrate nella missione sul Giappone e all’idea di desistere e ritornare indietro, protestò. D’un tratto il pilota che era ai comandi aveva proposto di abbandonare l’impresa. Aveva detto: «Non sappiamo dove siano gli altri, rientriamo». Sul punto di perdere la pazienza, Cheshire rispose indignato: «Per arrivare fin qui abbiamo traversato il Pacifico, impiegato anni per costruire la bomba, mesi per addestrarci; e adesso, all’ultimo momento, lei vuole rinunciare!»

L’amico Arthur Dykes morì tre mesi dopo essere stato accolto da Leonard Cheshire, ma prima di morire si rivolse a Leonard: «Non penso di essere finito in questo posto soltanto per me stesso. Penso che potrebbero arrivarne altri come me. Se arriveranno, prendili. Non vendere la casa».

Leonard Cheshire accolse l’invito di Arthur a dedicare la sua vita ai poveri e ai disabili che chiedevano di essere accolti in una casa. Volle anche lui essere accolto nella Chiesa. Nella vigilia di Natale del 1948 ricevette il battesimo in una parrocchia cattolica di Petersfield, nella contea dell’Hampshire, dalle mani del parroco padre Henry Clarke.

Presso la diocesi dell’East Anglia è stata presentata la richiesta di beatificazione di Leonard Cheshire che, morendo, aveva lasciato circa 250 case di accoglienza nel solo Regno Unito e altre simili opere di carità in cinquanta paesi di ogni continente. La Fondazione che porta il suo nome è una delle opere di accoglienza per persone disabili più diffuse al mondo.

Santa Teresa di Calcutta aveva proposto a Cheshire di unire le loro opere di carità, proposta che Cheshire non accettò, forse perché pensava di non essere degno di unire il suo nome a quello della santa di Calcutta. Nonostante ciò, Madre Teresa continuò a chiamarlo “il mio socio”. Il presidente indiano Nehru, in riferimento all’attività caritativa di Leonard Cheshire, disse di lui: «Questo è il più grande uomo che io abbia incontrato dopo Gandhi».

Per il giorno del suo matrimonio, Leonard e sua moglie Sue Ryder avevano composto una preghiera che termina con queste parole: «Ci hai chiamati, o Signore, / e noi Ti abbiamo trovato / dove ci sono i poveri, i sofferenti / e le persone indesiderate. / E lì ti serviremo, / fino alla morte».

Il dottor Nagai ha scritto: «Com’è possibile non scorgere un nesso profondo tra la fine della guerra e la distruzione di Urakami?» Ma si potrebbe aggiungere: com’è possibile non scorgere un nesso profondo tra il sacrificio di Urakami sotto il bombardamento atomico e la conversione del bombardiere Leonard Cheshire?

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Paolo Tritto

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