Novena di Natale – Arcidiocesi di Matera-Irsina

A cura dell’Ufficio Catechistico Diocesano.

Dalla mangiatoia di Betlemme ai cenacoli domestici

Dalla mangiatoia di Betlemme ai cenacoli domestici

Apostolato biblico

Novena di Natale

Dalla mangiatoia di Betlemme ai cenacoli domestici

“Torniamo al gusto del pane. Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”

16 dicembre – il gusto dell’umiltà

Il segno di Betlemme: il bambino adagiato in una mangiatoia

Dal Vangelo secondo Luca (2, 6-16)

Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per Maria i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.

C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva:

«Gloria a Dio nel più alto dei cieli

e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».

 Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il cielo, i pastori dicevano l’un l’altro: «Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia.

La mangiatoia piena di biada è il centro fisico della storia narrata. Non le sarebbe stata riservata una tale importanza se in essa non fosse stato adagiato un bambino appena nato avvolto in fasce. La mangiatoia, che di solito è il luogo adibito all’alimentazione degli animali, diventa la prima culla di Gesù. La mangiatoia è citata ben tre volte nel racconto a voler sottolineare l’importanza di ciò che rappresenta. Tuttavia, non si potrebbe comprenderne a pieno il valore se il racconto della nascita di Gesù, che già appare abbastanza paradossale, non fosse letto alla luce di quello della Pasqua. Accostando il racconto della nascita di Gesù a quello della sua morte, si notano dei richiami evidenti tra i quali emergono le fasce o le bende con cui è avvolto il corpo di Gesù e il fatto di essere deposto nella mangiatoia o nella tomba. Anche l’iconografia classica ha colto in questi elementi un legame tra il Mistero della Natività e quello della Pasqua. I primi cristiani erano soliti riunirsi presso le tombe dei martiri per celebrare l’eucaristia. La mangiatoia, segno profetico della tomba in cui Gesù è stato sepolto, diviene il primo altare sul quale Dio pone, per mano di Maria, suo Figlio offerto come pane che nutre e che sazia. Betlemme, il cui nome significa casa del pane, da quel momento diventa la prima domus ecclesia, la casa-chiesa, in cui tutti sono invitati a partecipare al banchetto, soprattutto i poveri la cui categoria è ben rappresentata dai pastori. Pernottando all’aperto, mostrano il fatto che nella loro povertà essi non hanno altro rifugio che il “Cielo”. Gli ultimi, gli scartati, gli emarginati diventano i primi a ricevere l’invito e ad accoglierlo. Il povero bambino, che nasce in una povera famiglia che a sua volta abita da forestiera in un mondo povero di amore, si rivolge a tutti iniziando dai confini più lontani della società. Accogliendo il vangelo dei messaggeri divini quale parola di Dio, i pastori diventano beati perché tali sono gli invitati alla «cena dell’agnello». Insieme a loro anche noi cantiamo con gioia la nostra fede per la quale crediamo che Gesù é il Cristo, il Salvatore potente, colui che, scendendo dal Cielo è nato per noi, ovvero per la nostra salvezza. La mangiatoia è il primo altare su quale Dio si mostra e si offre all’uomo quale nutrimento per la sua vita. 

Signore Gesù, Tu che nasci estraneo al mondo tra i clamori delle guerre, nella frenesia della società dei consumi, in mezzo alle luci e ai suoni di piazze piene di gente ma vuote di persone, vieni in mezzo a noi e attiraci con la mitezza del tuo silenzio. Donaci la pace del cuore perché impariamo ad essere come bambini tranquilli e sereni in braccio alla propria madre. Fa che, come i pastori hanno accolto la parola dei messaggeri divini, anche noi possiamo ascoltare e meditare il Vangelo per venire a Te, adorarti e lasciarci assimilare alla tua persona. Ricevendo dalle mani del Padre il tuo corpo e nutrendoci di Te, possiamo ritrovare il gusto della umiltà che ci restituisce la gioia di testimoniare al mondo la bellezza della tua misericordia. 

Pane spezzato, vita donata

Apostolato biblico, Ufficio catechistico

Novena di Natale

Dalla mangiatoia di Betlemme ai cenacoli domestici

“Torniamo al gusto del pane. Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”

17 dicembre

Pane spezzato, vita donata

Dal Vangelo secondo Marco (6, 34-44)

Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. Essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i suoi discepoli dicendo: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congedali, in modo che, andando per le campagne e i villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare». Ma egli rispose loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Gli dissero: «Dobbiamo andare a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?». Ma egli disse loro: «Quanti pani avete? Andate a vedere». Si informarono e dissero: «Cinque, e due pesci». E ordinò loro di farli sedere tutti, a gruppi, sull’erba verde. E sedettero, a gruppi di cento e di cinquanta. Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro; e divise i due pesci fra tutti. Tutti mangiarono a sazietà, e dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene e quanto restava dei pesci. Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini.

Gesù guida i suoi discepoli in un luogo deserto dove poter fare esperienza d’intimità. Ma la gente, che ha intuito la direzione presa dalla barca, li precede. Istintivamente tutti avremmo interpretato la presenza della folla come una fastidiosa interferenza e una sgradita intrusione con i progetti di meritato riposo. Gesù davanti a quella gente prova una grande compassione perché sente che proprio quelle persone sono il deserto da abitare. Il deserto è quella condizione di vita nella quale senti una profonda solitudine e guardandoti dentro trovi solo legami spezzati. La sofferenza più dolorosa è quella di sentirsi rifiutati, ignorati, disprezzati e isolati, e quindi convincersi di essere inutili, indegni, incompresi, non amati. Essere come pecore senza pastore significa vivere in una comunità frammentata in cui le famiglie vivono divise da distanze fisiche ed emotive, le amicizie sono sporadiche ed utilitaristiche. La sofferenza abita nel cuore che sa di essere spezzato e l’angoscia nasce dalla frustrazione del desiderio di comunione che ci pervade dal profondo. La compassione porta Gesù non a prendere le distanze da quella sofferenza ma ad andarle incontro cogliendo in essa il desiderio di trovare un posto nel quale sentirsi protetti e al sicuro. Lui stesso sperimenta la solitudine dei legami spezzati con i discepoli quando gli suggeriscono di congedare la folla perché possano arrangiarsi come possono per trovare di che mangiare. Anche i discepoli sono come pecore che non hanno pastore che ragionano secondo la logica individualistica per la quale ognuno si salva da sé e come può. Questa mentalità è l’esatto contrario della compassione. L’istintività umana porta ad evitare la sofferenza, a tenerla a distanza, a ignorarla, aggirarla o negarla. I discepoli non comprendono che la gente, ma in fondo anche loro, non cerca innanzitutto pane da mangiare né qualcuno che glielo vada a comprare al posto suo ma compagni con i quali condividere la povertà e la sofferenza. Darsi agli altri non significa sostituirsi a loro ma vuol dire avere uno sguardo nuovo su sé stessi, guardare la propria povertà non come ostacolo alla propria felicità ma come opportunità per realizzare da protagonisti l’anelito più profondo alla comunione. Accogliere la sofferenza altrui, senza la presunzione di offrire soluzioni, ci permette di accettare il fatto di essere anche noi come pecore mancanti del pastore e bisognose di ritrovare una guida che ci accompagni ai pascoli. Gesù ci aiuta a fare dei nostri deserti di solitudine pascoli dell’intimità umana nei quali ritrovare il gusto dello stare insieme, in piccoli o in grandi gruppi, in coppia o in casa, in chiesa come nella società. Nel gesto dello spezzare il pane si rivela il senso della compassione che conduce a farsi vicino a chi soffre per sostenerlo nella lotta a mantenere viva la speranza che oltre l’angoscia c’è la pace, oltre la morte c’è la vita e oltre la paura c’è l’amore. Il pane spezzato è il sacramento della vita di Cristo che fa della sua vita spezzata, della sua sofferenza, il mezzo per arrivare alla gioia, la via per raggiungere la pace. 

Signore Gesù, buon Pastore che hai compassione di noi e cogli nei nostri cuori spezzati la sofferenza e il nostro bisogno più profondo di amore, insegnaci a non cedere all’istinto che ci induce a rifiutare la povertà e a rinnegare la nostra appartenenza alla famiglia di Dio. La tua sapienza ci educhi a sguardi che non alimentano giudizi e sensi di colpa, ma che ci aprano ad una visione della realtà più intelligente e luminosa di speranza. Aiutaci a fare delle nostre vite spezzate delle vite donate con fiducia affinché nessuno si senta abbandonato nella sua solitudine ma tutti possano sperimentare la gioia di essere destinatari di un dono che guarisce l’angoscia e restituisce la dignità a chi l’ha smarrita credendo maggiormente in sé stessi quali figli amati e benedetti da Dio.  

Il pane dei figli e le briciole dei cagnolini – Il gusto della speranza

Apostolato biblico, Ufficio catechistico

Novena di Natale

Dalla mangiatoia di Betlemme ai cenacoli domestici

18 dicembre

Dal Vangelo secondo Matteo (15, 21-28)

Partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidone. Ed ecco, una donna cananea, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele». Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore – disse la donna -, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.

La reticenza di Gesù davanti alla supplica della donna cananea lascia perplessi persino i suoi discepoli. Gli suggeriscono di esaudire la sua pressante richiesta in modo da liberarsene giacché la sua insistenza iniziava a risultare fastidiosa. Ma invece di prestare attenzione al suo grido d’aiuto Gesù sembra avere l’intenzione di mandarla via senza compiere l’intervento richiesto. In realtà il Maestro sta offrendo una lezione ai suoi discepoli, essi che sono parte del gregge d’Israele. Le pecore della casa d’Israele sono perdute perché hanno smarrito il senso della vera fame. Essi si nutrono della parola di Dio e godono della sua benedizione ma per abitudine più che per bisogno. Quando si ha il cuore pieno di sé e delle preoccupazioni di questo mondo in esso non c’è lo spazio per i desideri. La donna straniera invece dimostra chiaramente che è più efficace il desiderio di salvezza piuttosto che l’appartenenza identitaria. L’insegnamento di Gesù circa la purezza mette in luce il fatto che la partita della salvezza non si gioca sul terreno dei meriti acquisiti ma sui desideri che spingono decisamente nella direzione di chiedere aiuto. Il cuore di questa donna è puro perché ella coltiva con costanza, nonostante tutto, la speranza di gustare la bontà e la misericordia di Dio. I discepoli suggeriscono a Gesù di esaudire la richiesta della donna nello stesso modo con cui essi praticano la legge. L’esperienza religiosa si riduce a fredda ritualità o a inutile prestazione allorquando viene meno la speranza. Quando viene a mancare la fame, soprattutto quella della parola di Dio, il culto diventa sterile ritualismo ed emergono dal cuore, come i rifiuti dalla fogna, le intenzioni cattive che, traducendosi in peccato, portano a tradire la volontà di Dio. Per essere salvi, ovvero raggiungere la piena realizzazione di sé stessi, si necessita della stessa fede della Cananea la quale non reclama il pane destinato ai figli ma le briciole che il padrone di casa lascia cadere per i cagnolini dopo averlo spezzato. Ella non solo segue Gesù ma gli si prostra davanti umiliandosi di fronte a lui. La preghiera perseverante, che spera contro ogni speranza, giunge ad un faccia a faccia in cui la disparità e l’asimmetria dei soggetti viene riconosciuta dalla donna insieme alla grandezza della misericordia di Gesù e alla consapevolezza della sua piccolezza. La Cananea viene lodata per la sua grande fede perché è la fede dei piccoli, capace di una preghiera che supera le nubi e commuove il cuore di Dio.

Signore Gesù, Tu che sulla croce hai vissuto il dramma del silenzio di Dio e scendendo agli inferi hai sperimentato la sofferenza della sua assenza, sostieni la mia fede quando non trovano risposta le suppliche e la desolazione soffia forte sulla debole fiamma della speranza. Maestro della fede, educami al dialogo orante mosso non dalla paura ma dal desiderio di essere salvato. Fa che la mia preghiera si unisca a quella dei miei fratelli e sorelle che invocano da Dio con umiltà e fiducia il dono della pace. Donami la pazienza d’imparare dal silenzio l’arte del parlare perché dal mio cuore, purificato dalla tua Parola, possano germogliare propositi di bene e parole buone che servono per la necessaria edificazione della comunione fraterna.  

I pani prestati – Il gusto dell’amicizia

Apostolato biblico, Ufficio catechistico

Novena di Natale

Dalla mangiatoia di Betlemme ai cenacoli domestici

19 dicembre

Dal Vangelo secondo Luca (11, 5-8)

Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: «Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli», e se quello dall’interno gli risponde: «Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani», vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.

Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

Su richiesta dei discepoli Gesù insegna a pregare rivolgendosi a Dio chiamandolo Padre, perché la preghiera è un dialogo familiare, pieno di confidenza e d’intimità. Nel cuore della preghiera c’è la domanda di ricevere da Lui il «pane quotidiano». L’insegnamento non si limita ad uno schema di preghiera o ad una formula, ma vuole educare a vivere la relazione con Dio nello stesso modo con cui un figlio dialoga con il padre di ogni cosa. Man mano che passiamo dall’infanzia all’adolescenza perdiamo la fiducia nei confronti delle figure educative dalle quali si cerca di emanciparsi. Alla fiducia si sostituisce la vergogna di chiedere aiuto nella immatura pretesa di poter fare da soli. Non ci si può staccare dalle proprie radici, altrimenti questo decreterebbe veramente la fine. Gesù propone una piccola parabola per aiutarci a riflettere sulla necessità di pregare con perseveranza e fiducia per tenere vivo questo dialogo d’amore. Il rapporto di amicizia permette quella confidenza tale che, da una parte diventa confessione della propria povertà, e dall’altra, fa osare oltre i limiti della correttezza o della stretta giustizia. Chiedere presuppone l’umile fiducia nei confronti di chi sai che ti può aiutare senza giudicare o speculare sulle proprie mancanze. Chi più di un padre è capace di comprendere la richiesta di aiuto? Eppure, ci sono padri cattivi che però riescono a dare cose buone ai loro figli. Tra questi c’è il Padre celeste che, nonostante a volte sembri assente o indifferente, invece è buono, non solo perché è provvidente e sazia la fame dei suoi figli, ma anche perché dona lo Spirito Santo a coloro che lo invocano con cuore umile e sincero. I tre pani chiesti in prestito potrebbero rappresentare tre doni di Dio: la fede, la speranza e la carità. Esse sono le virtù che ci vengono date col battesimo, ma non una volta per tutte. Si richiede una continua invocazione dello Spirito, in particolare nell’Eucaristia, affinché esse possano essere veramente possedute e perché chi accede alla comunione eucaristica possa diventare pane egli stesso. Il medesimo Spirito, che nel battesimo ci consacra figli di Dio, nell’Eucaristia riunisce tutti in un unico corpo e ci fa veramente amici.  

Signore Gesù, amico dei piccoli e dei poveri, insegnaci a farci mendicanti dello Spirito Santo presso il Padre celeste. Ricordaci che per portare frutto abbiamo bisogno sempre di attingere vita dalla radice piantata nel cuore di Dio. Sostienici con la tua preghiera perché non ci stanchiamo di alzare i nostri occhi al cielo per chiedere aiuto con speranza, di perseverare con fiducia nel cercare la volontà di Dio e di bussare alla porta del suo cuore per ricevere il dono della carità che ci fa fratelli di tutti.   

Il lievito del regno dei cieli – Il gusto della sapienza popolare

Apostolato biblico, Ufficio catechistico

Novena di Natale

Dalla mangiatoia di Betlemme ai cenacoli domestici

20 dicembre

Dal Vangelo secondo Matteo (13, 33)

Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».

Il Vangeli ci dicono che Gesù, come ogni uomo, è cresciuto, in età, sapienza e grazia. Tutti sappiamo che questi tre aspetti compongono la totalità della persona: corpo, anima e spirito. Lo sviluppo del corpo si dispiega nell’arco di tempo della vita mentre le dinamiche dell’anima e dello spirito sono declinate non in base al tempo cronologico ma a quello che i greci chiamano kairos, tempo opportuno o evento. La persona cresce non solo nel corpo ma anche nell’anima e nello spirito man mano che vive i fatti come esperienze, delle quali cerca di coglierne il significato e gustarne il senso. Quante volte Gesù avrà visto sua madre Maria impastare il pane. Quel fatto è diventato per lui esperienza allorquando quel gesto ripetuto molte volte si è rivelato a lui con un significato ulteriore. Avrà chiesto a Maria il significato dei gesti che lei faceva e il perché mescolava la farina con il lievito. Le parole della madre erano state luce alla mente per comprendere il meccanismo per il quale qualche pugno di farina misto ad acqua diventava pane una volta cotto al fuoco. Dall’esperienza, in cui sono unite parola e azione, Gesù ha intuito che anche in lui c’era un “lievito” che gli permetteva di crescere in sapienza e grazia. Nel suo insegnamento attinge alla sapienza domestica per rivelare anche a noi che chiunque si lascia “impastare” dalla mano materna di Dio con il lievito dello Spirito Santo cresce in sapienza e in grazia. L’eucaristia è come il lievito madre che una donna conserva e mescola con la farina perché la massa possa crescere morbida e soffice. Con l’eucaristia cresciamo umanamente nella comunione fraterna perché diventiamo pane morbido e tenero che pure i più piccoli possono mangiare anche se non hanno i denti. Tuttavia, Gesù mette anche in guardia dal lievito cattivo, quello che si è corrotto. Si tratta dell’orgoglio e dell’ipocrisia che si insinua nella nostra umanità e ci rende acidi e intrattabili. Il lievito va conservato bene, così come la fede la quale, se non è alimentata dalla preghiera e dalla carità fraterna, diventa qualcosa di dannoso per sé e per gli altri.

Signore Gesù, tu che diventando uomo ti sei mescolato con coloro che chiami fratelli, donaci il tuo Spirito perché, nutriti del tuo corpo, possiamo crescere anche in sapienza e grazia. Purifica il nostro cuore da ogni forma d’ipocrisia che, come lievito corrotto, guasta con l’orgoglio anche le opere buone che possiamo compiere. Guidaci nel continuo discernimento per saper distinguere il lievito buono della Parola che viene da Te e che ci fa essere buoni come il pane, da quello cattivo che rende inservibile tutto ciò con cui entra in contatto. Donaci il gusto della sapienza che viene dal Cielo e dell’amore fraterno perché nel mondo si accresca il numero di coloro che testimoniano con la carità la gioia del Vangelo.

I pani dell’offerta – Il gusto della gratitudine e della gratuità

Apostolato biblico, Ufficio catechistico

Novena di Natale

Dalla mangiatoia di Betlemme ai cenacoli domestici21 dicembre

21 dicembre

I pani dell’offerta – Il gusto della gratitudine e della gratuità

Dal Vangelo secondo Luca (6, 1-5)

Un sabato Gesù passava fra campi di grano e i suoi discepoli coglievano e mangiavano le spighe, sfregandole con le mani. Alcuni farisei dissero: «Perché fate in giorno di sabato quello che non è lecito?». Gesù rispose loro: «Non avete letto quello che fece Davide, quando lui e i suoi compagni ebbero fame? Come entrò nella casa di Dio, prese i pani dell’offerta, ne mangiò e ne diede ai suoi compagni, sebbene non sia lecito mangiarli se non ai soli sacerdoti?». E diceva loro: «Il Figlio dell’uomo è signore del sabato».

Il precetto del sabato riveste un ruolo centrale nella fede ebraica. Letteralmente il termine ebraico shabbat, tradotto con sabato, significa fermarsi e allude al fatto che Dio nel giorno finale della creazione si ferma dal lavorare. Da qui anche il significato del riposo. Celebrare il sabato significa imitare Dio. Come lui si è fermato dal creare, così l’uomo si astiene dal lavorare. In tal modo il sabato diventa il giorno della festa nella quale si gusta il valore della libertà e della fraternità. Il lavoro, vissuto nella solitudine e spesso nella competizione, trova il suo approdo nella festa, esperienza di condivisione e di comunione. La legge, nell’imporre il divieto di lavorare in giorno di sabato, intende educare a proteggere il senso più profondo del sabato che risiede nel riposo inteso come relazione di amore e cura reciproca. La celebrazione del sabato diventa profezia del banchetto festoso che Dio prepara per gli uomini in cui essi gusteranno le prelibatezze del suo amore. È appunto questo il significato dei dodici pani dell’offerta che venivano posti sulla mensa del tempio e che solo i sacerdoti potevano mangiare una volta che venivano cambiati il sabato. I sacerdoti rappresentavano il popolo d’Israele nell’atto di presentare al Signore i pani, frutto della terra e del lavoro dell’uomo, e di mangiarli alla sua presenza per indicare il fatto di riceverli dalla mano di Dio. Il rito corre il rischio di non essere più significativo quando si stacca dalla vita e la legge riduce la fede a pratiche formali che hanno la pretesa, quasi magica, di piegare Dio a sé stessi. L’episodio biblico richiamato da Gesù mostra che la norma non ha il primato assoluto ma è subordinata al bisogno vitale dell’uomo. Davanti all’uomo bisognoso cedono tutte le barriere legislative. Se di trasgressione si deve parlare essa si rivolge contro la rigidità della legge che crea divisione piuttosto che comunione e solidarietà, come invece dovrebbe essere. Nell’ Eucaristia presentiamo a Dio il pane dell’offerta dal sapore della terra e della fatica del nostro lavoro per ricevere da Lui il pane che sazia la fame dell’uomo, non solamente di cibo ma soprattutto d’amore. La salvezza, anelito di ogni uomo che cerca la pace, è l’approdo ultimo della vita ed essa consiste nel passaggio dalla sola soddisfazione del proprio bisogno all’oblazione totale di sé all’Altro. In definitiva, la Legge è data non per sé stessa o come forma di auto salvezza, ma per educare l’uomo vivere pienamente l’esperienza della relazione che va dall’accogliere l’aiuto di Dio con gratitudine ad essere eucaristia per l’altro.

Signore Gesù, il tuo nome è Carità e in Te si compendia tutta la Legge, aiutaci a liberarci dalla presunzione di salvarci da soli mediante le nostre opere ma insegnaci a disobbedire alla paura superando tutti gli ostacoli che essa genera nel nostro cuore. Fa che possiamo sempre confidare nella provvidente misericordia del Padre presentando a Lui ogni nostra fatica e chiedendo il dono dello Spirito Santo. Guardando alla nostra umiltà saziaci di beni spirituali per condividerli con gioia insieme agli altri fratelli nella fede. Rendici sacerdoti offerenti del nostro cuore!

 

Questo è il mio corpo dato per voi – Il gusto della purezza e della novità

Novena di Natale

Dalla mangiatoia di Betlemme ai cenacoli domestici. “Torniamo al gusto del pane. Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”

22 dicembre

Questo è il mio corpo dato per voi – Il gusto della purezza e della novità

Dal Vangelo secondo Luca (22, 7-8.14-20)

7Venne il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la Pasqua. Gesù mandò Pietro e Giovanni dicendo: «Andate a preparare per noi, perché possiamo mangiare la Pasqua».

14Quando venne l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse loro: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio». E, ricevuto un calice, rese grazie e disse: «Prendetelo e fatelo passare tra voi, perché io vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio». Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me». E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi».

La Pasqua degli ebrei si chiama pure festa degli Azzimi che prende il nome dal pane non lievitato che si mangiava insieme all’agnello e alle erbe amare. La cena pasquale rispetta tutte le indicazioni dettate dal libro dell’Esodo che prescrive di celebrare la festa degli Azzimi per sette giorni nei quali bisogna eliminare ogni cibo lievitato e consumare anche pane privo del lievito. Gli Azzimi ricordano che nella notte dell’esodo tutto avvenne in fretta. Bisognava prepararsi subito a partire per mettersi in cammino, quindi non c’era il tempo di far lievitare il pane che pure era necessario per il viaggio. Il rito prevede che nei sette giorni della festa degli Azzimi bisogna eliminare ogni cibo che abbia lievito per significare che la celebrazione segna uno spartiacque tra il prima e il dopo, tra il vecchio e il nuovo. La Pasqua ha veramente segnato un punto di svolta nel cammino dell’esodo d’Israele, che inizia con un pasto rituale, tanto frugale quanto essenziale, e si compie nell’ingresso nella terra promessa dove si mangiano i prodotti della terra che il Signore ha donato perché sia coltivata. La cena pasquale che Gesù mangia con i suoi discepoli assume lo stesso valore di quella che precedette il passaggio del Mar Rosso. Quel pasto non era più semplicemente il memoriale della liberazione dalla schiavitù egiziana ma il segno di una vera novità che Gesù avrebbe introdotto da lì a poco sulla croce dando il suo corpo e versando il suo sangue per stipulare una alleanza nuova ed eterna. Il rito dell’Eucaristia è inaugurato nell’ultima cena nella quale Gesù s’identifica nel pane azzimo che ha tra le mani, sul quale recita la benedizione, che spezza distribuendone i bocconi a ciascuno dei suoi discepoli. Con quel gesto Gesù introduce la vera novità. Dio non dà solo il pane, ma si dà nel pane. Gesù è la novità che fa nuove tutte le cose. Egli porta a compimento ciò che è significato nel rito degli Azzimi perché è Lui che toglie il lievito vecchio e ci fa essere pasta nuova, infatti, è l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. Celebrare l’Eucaristia e mangiare il pane nel quale Dio si dà a noi e per noi, significa celebrare la festa nella quale Gesù Cristo toglie da noi il «lievito della malizia e della perversità» per essere «azzimi di sincerità e verità». Nell’Eucaristia si rinnova il dono della liberazione dalla schiavitù del peccato ed è aperta la strada della riconciliazione con Dio. Il pane azzimo dell’Eucaristia ci ricorda che celebriamo la Pasqua da pellegrini in cammino verso il regno di Dio in cui la vivremo da cittadini del Cielo.   

Signore Gesù, Pane di vita nuova, ti doni a noi nell’Eucaristia perché sia eliminato dal nostro cuore il lievito cattivo della malizia e della perversità affinché diventiamo creature nuove. Uniti a te mortifichiamo il male che ci rende vecchi e destinati a perire per partecipare anche alla tua risurrezione. Con Te passiamo dalla morte alla vita per non tornare più indietro ma per camminare insieme sulla via che ci conduce nella patria del Cielo. Sorretti da questo pane di speranza, che ha accompagnato i pellegrini della libertà nel deserto e fu dato ad Elia per raggiungere il santo monte, anche noi possiamo progredire nell’itinerario della fede che ci introduce nella vita eterna. Fa che possiamo prepararci bene a mangiare la Pasqua insieme a Te perché ad immagine tua anche noi possiamo essere nel mondo fermento di vita nuova e di fraternità.

Lo riconobbero allo spezzar del pane – Il gusto della compagnia

Apostolato biblico, Ufficio catechistico

Novena di Natale

Dalla mangiatoia di Betlemme ai cenacoli domestici

23 dicembre

Lo riconobbero allo spezzar del pane – Il gusto della compagnia

Dal Vangelo secondo Luca (24, 28-35)

Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!».

Il terzo giorno dopo la crocifissione di Gesù, il primo giorno della settimana, alcune donne erano andate al sepolcro ma lo avevano trovato vuoto. Tutto avrebbe fatto pensare ad un trafugamento del cadavere, ma due angeli avevano rivelano alle donne che Gesù non era lì perché era risorto, come aveva profetizzato. Esse si ricordarono delle parole di Gesù e andarono ad annunciare la risurrezione agli apostoli e agli altri discepoli, ma non furono credute. Pietro, che era corso a verificare l’accaduto, poté solo vedere le bende che non avvolgevano più il corpo di Gesù. Nel frattempo, due dei discepoli che erano a Gerusalemme lasciano la città per dirigersi al villaggio di Emmaus. Mentre sono per strada un tale si avvicina e cammina con loro ma non riconoscono che è Gesù, non perché abbia cambiato aspetto ma per il fatto che la tristezza era calato sul loro cuore inseguito al fallimento delle loro speranze riposte in Gesù. Essi sono vinti dalla rassegnazione che fa interpretare gli eventi in maniera distorta. Dopo averli ascoltati Gesù ripete l’insegnamento che era stato richiamato anche dagli angeli e che s’inserisce negli oracoli profetici della Scrittura. Gli eventi non sono letti alla luce delle categorie umane viziate dal giudizio che tende a colpevolizzare e a screditare, ma nell’ottica della volontà divina. I ragionamenti umani conducono fuori strada mentre l’insegnamento di Gesù è un pellegrinaggio attraverso le Scritture che giunge finalmente a vivere la gioia della condivisione della mensa. Il passaggio dalla compagnia nel cammino a quella della mensa non è automatico. Se non fosse stato per l’invito rivolto dai due discepoli al loro interlocutore, lui avrebbe continuato per la sua strada e il tutto si sarebbe concluso con un’altra separazione dopo quella di Gesù dai suoi e i due discepoli dal resto della comunità. L’insistenza con la quale i due discepoli invitano Gesù a restare con loro rivela che nel loro cuore la tristezza ha lasciato il posto al desiderio come quello ardente che era stato espresso da Gesù nell’ultima cena. La parola di Gesù ha acceso nel loro cuore il desiderio della sua compagnia e in tal modo li ha preparati a riconoscerlo presente nel gesto dello spezzare il pane. A Betlemme non c’era posto per Maria e Giuseppe nell’alloggio e dovettero trovare rifugio in una grotta adibita a stalla. Una mangiatoia fu il primo giaciglio di Gesù che iniziò ad abitare tra noi accolto dai suoi genitori. Ad Emmaus non c’è Maria e Giuseppe ma i suoi compagni di viaggio che lo ospitano. Alla famiglia di origine si sostituisce quella dei discepoli e la piccola comunità, che assomiglia tanto a quella della diaspora, funge da nuovo cenacolo nel quale si rinnova il gesto dello spezzare il pane dopo averlo benedetto. La luce accesa nel loro cuore dalla Parola permette ai due discepoli di credere quello che gli altri invece non avevano accettato. Il gesto dello spezzare il pane richiama alla mente quello che Gesù aveva detto circa la vita donata che diventa anche vita salvata. Lo spezzare il pane strappa dagli occhi dei discepoli il velo della paura per riconoscere in Lui il Signore vivo in mezzo a loro. Il pezzo di pane nelle loro mani sta a ricordare loro che Gesù si è donato una volta per tutte e continua a mettersi nelle nostre mani affinché possa vivere in noi e noi in Lui, per sempre.

Signore Gesù, come ai discepoli di Emmaus, nell’Eucaristia ci sveli il senso delle Scritture e spezzi il pane per noi. Donaci occhi per riconoscerti nel pane spezzato di coloro che soffrono e offrono la loro vita perché altri fratelli e sorelle possano vivere in pace. L’ascolto della tua parola accenda in noi il desiderio della comunione e ci apra a condividere tutto con i fratelli in spirito di solidarietà e sentimenti di compassione. Aiutaci ad essere vigilanti e attenti ai bisogni degli altri e insegnaci ad essere testimoni gioiosi e credibili del tuo amore che trionfa sul peccato e sulla morte.

Nelle case spezzavano il pane in letizia di cuore – Il gusto della comunione fraterna

Apostolato biblico, Ufficio catechistico

Novena di Natale

Dalla mangiatoia di Betlemme ai cenacoli domestici

24 dicembre

Dagli Atti degli Apostoli (At 2, 42-47)

Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.

In questo piccolo quadro l’evangelista Luca presenta la Chiesa nascente e la disegna quasi ispirandosi al presepe di Betlemme. C’è un filo rosso che, attraversando il racconto del terzo vangelo dalla mangiatoia giunge alla mensa domestica attorno alla quale si spezza il pane e si prende cibo con animo gioioso. Con brevi pennellate si descrive il clima familiare che si respirava nella comunità cristiana delle origini composta da piccoli gruppi di persone che si riunivano nei cenacoli domestici. Come Maria funge da chiave di volta che tiene insieme le pietre dell’arco apostolico, così la presenza degli apostoli nelle chiese garantisce l’unità della fede nella diversità della storia di ciascuno. Gli apostoli sono il principio di comunione nella chiesa fondata sulla carità, attinta dall’ascolto della Parola e dalla celebrazione dell’Eucaristia. Il ministero apostolico si declina nella predicazione del Vangelo e nelle azioni nelle quali si dispiega la potenza santificatrice dello Spirito Santo che sana, perdona e libera. La vita cristiana, come quella di ogni famiglia, è fatta di gesti ripetuti che diventano buone abitudini. La forza vitale della Chiesa sta nel mantenere vive la virtù dell’ascolto e della condivisione. Come Maria, anche la Chiesa nascente medita e rilegge la sua storia alla luce della Pasqua e, accompagnata dai tanti testimoni della fede del passato e del presente, s’inserisce nella storia degli uomini che per grazia di Dio diventa storia della salvezza. La preghiera è l’anima della vita cristiana perché attraverso di essa accogliamo lo Spirito Santo che fa di noi un solo corpo e un solo spirito. La concordia e l’unanimità sono un dono dello Spirito che soffia nella Chiesa e fa di essa il pane che Dio spezza per tutta l’umanità bisognosa di amore e di gioia. Come il bambino nella mangiatoia è segno di speranza per gli ultimi, che diventano i primi a portare la gioia del vangelo nel mondo, così la comunità cristiana quanto più si fa povera per i poveri tanto più diventa trasparenza del Dio degli umili e luce per chi è nelle tenebre del peccato e gioia per coloro che sono nella tristezza.  

Signore Gesù, che hai voluto la Chiesa come segno vivo della tua presenza nel mondo, fa che coltiviamo le stesse virtù che hanno resa santa la tua famiglia di Nazaret e unite le comunità cristiane degli inizi. Effondi il tuo Spirito sopra di noi perché il fuoco della carità bruci il peccato che inquina i rapporti fraterni, purifichi il nostro cuore per aprirlo sempre di più ad accogliere il dono della Parola di vita e di coloro che hanno bisogno del nostro aiuto, alimenti la speranza della concordia e della comunione. Rendici partecipi della tua missione insegnando a predicare il vangelo con la benedizione della tenerezza e dell’amabilità. Dai nostri feriali gesti di carità si spanda il buon profumo del pane eucaristico perché in chi lo sente nasca il desiderio di gustare e sperimentare il tuo amore che dà gioia.

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Redazione

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