Pierluigi Bersani e l’idea del “partitone”

Si sente la mancanza di grandi partiti politici capaci di rappresentare veramente la nazione intera

Nei giorni scorsi, in un’intervista al Corriere della Sera, Pierluigi Bersani ha tirato fuori una delle sue idee, una delle sue “ideone” è il caso di dire: quella del “partitone”. È un’idea che viene fuori evidentemente dai problemi che i partiti, i “partitini”, stanno incontrando nell’individuare il candidato ideale per il Quirinale. Nella speranza che lo spettro di Berlusconi non allunghi, nel frattempo, la sua ombra sulle tante anime in pena che vagano tra i grandi elettori e che potrebbero abboccare all’amo berlusconiano. O che qualche allegro sciamàno italiano occupi il Quirinale per impedire che Mattarella vada via; dopo tutto quello che abbiamo visto con i no-vax, chi potrebbe escluderlo?

Non è affatto da scartare l’ideona di Bersani che, bisogna riconoscerlo, è uno dei politici più amati dagli italiani. È un’idea che, anzi, intercetta le istanze popolari che, tra le altre cose, dicono che la gente è un po’ stufa di questi partitini e di tanti trans-parlamentari – senza offesa per i trans – che vagano desolatamente da un partito all’altro. Del resto, non poteva essere diversamente, per la capacità di Bersani, invidiata da tutti, di sintonizzarsi con la pancia degli italiani.

Ma l’idea del “partitone” non dovrebbe dispiacere nemmeno ai costituzionalisti. Da parte di tutti, insomma, si avverte un po’ la nostalgia dei grandi partiti nazionali. Di realtà politiche che un tempo erano capaci di rappresentare veramente l’intera nazione. Certo, bisognerebbe chiarire con Bersani alcune cose al riguardo, per fugare il dubbio che dietro alla sua proposta non ci sia il sogno ricorrente degli ex comunisti di fare un partitone talmente onnicomprensivo – loro lo chiamano genericamente di “unità democratica” – che altro non sarebbe che il mitico “partito unico”.

Ma come realizzare questa idea di grandi aggregazioni all’interno del panorama politico italiano? In questo caso, come in gran parte dei casi della politica italiana, la risposta ci sarebbe. E basta andare a ricercarla nel pensiero politico di don Sturzo. Perché, diciamo la verità: l’unico che ha mostrato vera capacità di analisi riguardo alla politica italiana è stato questo prete di Caltagirone; rispetto al quale i politici di oggi non sono che dilettanti allo sbaraglio.

Negli anni della costituente, don Luigi Sturzo vedeva il pericolo che i partiti non si fermassero – diceva lui – alla porta del parlamento. Ciò per una ragione molto semplice. Cioè per il fatto che ogni singolo parlamentare rappresenta, nel parlamento e nelle istituzioni democratiche, l’intera nazione. Sturzo si è battuto, di conseguenza, perché all’interno del parlamento non fossero riconosciuti i gruppi con un’identità di partito. Perché questo crea una situazione ambigua dove non è chiaro se nel corso dei lavori parlamentari, il deputato o il senatore, parla e lavora a nome del proprio partito o dell’intera nazione.

Secondo Sturzo, all’interno del parlamento dovrebbero essere riconosciuti soltanto due gruppi: quello della maggioranza che sostiene il governo e quello dell’opposizione, come del resto avviene in quei parlamenti di antica formazione che Sturzo assumeva come modello. È facile immaginare come questa idea di Sturzo porterebbe alla rapida semplificazione del quadro politico.

Purtroppo il prete di Caltagirone non fu ascoltato, per la concezione diversa della democrazia che avevano i comunisti dell’epoca. I quali non accettavano l’idea che il parlamentare fosse espressione esclusivamente della volontà popolare. Nella loro visione i parlamentari e, in fondo, la stessa volontà popolare non potevano essere che diretta emanazione del partito e delle direttive che questo emanava. Questa e altre idee di Sturzo, però, non furono condivise nemmeno da parte della Democrazia cristiana, particolarmente da coloro che il prete chiamava “i professorini” – si legga soprattutto il nome di Amintore Fanfani – i quali avevano una visione di politica “organica al partito”, come si diceva allora, formalmente non molto dissimile da quella che avevano i comunisti.

Non aver seguito la strada indicata da Sturzo ha portato all’inevitabile frammentazione del quadro politico italiano, alla proliferazione dei gruppi parlamentari e dei gruppi consiliari presso le assemblee regionali, infine alla proliferazione degli stessi partiti. Basti pensare soltanto al fatto che in molti Consigli regionali – ma la tendenza si vede bene anche nello stesso parlamento – non raramente si assiste alla costituzione di “gruppi” formati da un solo individuo. E questa è una cosa che stride non poco con lo stesso lessico della lingua italiana. Ben venga il “partitone” di Bersani, dunque.

Corriere della Sera, 12 gennaio 2022, p. 15

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Paolo Tritto

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