Rosario Livatino, la toga e il martirio

Il «giudice ragazzino», assassinato da una «stidda» mafiosa il 21 settembre 1990, è stato beatificato alcuni mesi orsono per volere di Papa Francesco dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, proprio nella Agrigento del suo martirio. Oggi avrebbe quasi 69 anni.

Prima di morire ha detto: ‘Picciò che vi ho fatto? ‘». Sono parole di fuoco, un seme che dal sangue del martire raggiunge i cuori degli stessi assassini e li chiama a conversione: dalla mafia si può guarire.

Egli fu un lottatore nel “martirio a secco”, che significa tener testa, con dignità e compostezza, a quell’umanesimo che mortifica l’uomo giacché ne ignora il supremo destino.

È martirio a secco remare controcorrente, rispetto alle tendenze generative in ambito morale e sociale; è martirio, amare chi non ci ama, voler collaborare con chi non ci accetta, perdonare chi ci ha fatto del male, riuscire a pregare in suffragio delle persone il cui cadavere è quello di un morto ammazzato, di un criminale.

Queste poche righe spiegano le motivazioni dell’approfondimento che si sta facendo in più parti d’Italia ed anche da noi con il convegno sul tema “Rosario Livatino, la toga e il martirio” che si terrà sabato 30 ottobre alle ore 10,30 presso l’Hotel del campo a Matera.

Terrà la relazione il giudice Alfredo Mantovano, co-autore del libro “Un giudice come Dio comanda”, interverranno il magistrato Mariadomenica Marchese e il sacerdote don Leonardo Santorsola, introduce e modera Giampiero Perri.

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Redazione

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