SÀNITAS SEMPER REFORMANDA

«Una società è tanto più umana quanto più sa prendersi cura dei suoi membri fragili e sofferenti, e sa farlo con efficienza animata da amore fraterno. Tendiamo a questa meta e facciamo in modo che nessuno resti da solo, che nessuno si senta escluso e abbandonato». (Papa Francesco, Messaggio per la XXIX Giornata Mondiale del Malato)

La pandemia ha riportato in primo piano i temi della salute e della malattia, oltre a far emergere i limiti strutturali ed organizzativi di sistemi sanitari, pur diversi fra loro, in ogni parte del mondo.

Già pochi anni dopo la nascita del Servizio Sanitario Nazionale con la Legge 833 del 1978, ispirata al principio dell’universalismo e della gratuità della cura, si è iniziato a discutere di una sua possibile riforma.

Vanno ricordate due tappe importanti di questo processo: con la Legge 502/1992 iniziò la trasformazione in senso aziendale della sanità pubblica, l’ingresso in campo della sanità privata ed il trasferimento di alcune competenze alle regioni; da quella data le USL (Unità Sanitarie Locali) poi ASL (Aziende Sanitarie Locali) furono affidate alla gestione di un Direttore generale che, nominato dal Presidente della Giunta regionale, rimane in carica cinque anni avvalendosi della collaborazione di un direttore sanitario e di un direttore amministrativo.

Con la riforma Ter 229/1999, a firma della ministra Rosy Bindi, si definirono i criteri per la definitiva adozione dei LEA, quei livelli essenziali di assistenza da assicurare in maniera uniforme a tutti i cittadini.            

È il Piano sanitario nazionale che a cadenza triennale ne stabilisce i contenuti tenendo conto di due criteri: l’efficacia dei trattamenti, basata sulle evidenze scientifiche, e l’appropriatezza rispetto ai bisogni assistenziali riconosciuti essenziali. A parità di efficacia i trattamenti vengono poi valutati e resi accessibili, gratuitamente o dietro pagamento di un ticket, secondo il criterio della economicità.

Il dibattito attuale continua a ruotare attorno al tema delle risorse finanziare, della riorganizzazione della rete ospedaliera e del potenziamento del territorio ma senza approdare a soluzioni condivise, anche a causa della frammentazione del Servizio sanitario nazionale in 21 diversi servizi regionali.

All’indomani della pubblicazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza sul capitolo della sanità c’è stata una presa di posizione fortemente critica di tutte le rappresentanze sindacali delle professioni mediche che hanno segnalato i rischi di una riorganizzazione burocratica del Servizio sanitario nazionale e della rivisitazione in chiave manageriale del sistema salute.

Pur essendoci accordo sulla necessità di un cambiamento nella gestione della sanità, che riduca le intromissioni della politica e ridia al governo centrale poteri di intervento oltre che di indirizzo, le strategie riformiste sembrano difficilmente perseguibili senza il coinvolgimento dei cittadini e degli stessi operatori sanitari.

Il dibattito in corso da mesi nella nostra regione sulla “difesa della sanità”, sostenuto da varie associazioni di cittadini, è segno, al di là dei toni campanilistici, di una ritrovata volontà di partecipazione.

La macchina della sanità non è facile da guidare perfino quando la direzione di marcia e gli obiettivi siano ben definiti: portare l’assistenza il più vicino possibile ai cittadini, nella dimensione della domiciliarità, lasciando all’ospedale il trattamento delle patologie complesse e di quelle acute.

Non possiamo illuderci che le soluzioni siano a portata di mano ma siamo convinti che occorra guardare alla realtà della sanità da una prospettiva nuova, quella dei nuovi poveri, degli ultimi, degli invisibili e dei loro bisogni: è un indicatore di equità del sistema che andrebbe preso in considerazione.

È al tempo stesso il suggerimento di un metodo di approccio ai problemi capace di sollecitare la creatività dal basso e la costruzione del bene comune, sfuggendo al tentativo di sognare “sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’essere buono” (T. S. Eliot). 

La storia dell’Ospedalità italiana dalle origini attesta che si tratta di una prospettiva realistica e non utopica: basterebbe guardare all’opera delle Associazioni laicali come le Misericordie, attive ancora ai nostri giorni, a quella delle Confraternite di assistenza, alla costruzione di luoghi di cura ad opera degli ordini ospedalieri (Antoniani, S. Spirito, Teatini, Camilliani per citarne solo alcuni) con l’Ospedale S. Maria Nuova di Firenze, l’Ospedale SS. Giovanni e Paolo di Venezia, la Ca’ Granda Ospedale Maggiore di Milano, l’Ospedale Santo Spirito in Sassia di Roma e l’Ospedale degli Incurabili di Napoli.

Con le giornate mondiali dei poveri, l’apertura di ambulatori per le persone prive di assistenza medica, l’assistenza ai senza fissa dimora e l’offerta dei vaccini anti Covid ai dimenticati della società, il Papa sta indicando una strada che interpella tutti, non solo gli addetti ai lavori, quella della condivisione e della solidarietà.

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Erasmo Bitetti

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