Cutro. Il vescovo: «Il mare giudicherà questo tempo così disamorato della vita»

Articolo di mons. Antonio Giuseppe Caiazzo, arcivescovo di Matera-Irsina e vescovo di Tricarico, sulla tragedia di Cutro avvenuta un anno fa.

Il 19 aprile del 2023, con un gruppo di sacerdoti della Diocesi di Tricarico, accompagnato dal parroco di Steccato di Cutro, don Pasquale Squillacioti, mi reco su quella spiaggia che, alle 4.30 del 26 febbraio, vide, a pochi metri dalla riva, infrangersi il sogno di libertà di circa 100 persone, sotto le onde furiose del mare. Il 19 aprile è una giornata di sole, il mare è liscio come l’olio e trasparente. Sulla spiaggia i segni di croci, di fiori, lumini spenti, scarpe, vestiti, peluche per bambini, biberon…, tanti pezzi di legno di quell’imbarcazione sparsi per centinaia di metri. C’è solo silenzio. Nessuno ha voglia di aprire bocca. Solo preghiera e commozione prima di celebrare la Messa in suffragio di naufraghi e dispersi.

A riflettori e passerelle spenti, resta il riflesso dorato del sole che solca quelle calme e deliziose acque come grembo che ha accolto l’ultimo alito di vita sulla terra di bambini, giovani, adulti. Raccolgo due pezzi di legno di quella barca. Li porto gelosamente con me fino a Matera, dove, nella mia cappella li pongo per sempre a forma di Croce. Ogni giorno un ricordo nella preghiera per i tanti, troppi innocenti che nel nostro splendido mare trovano la morte.

Sono almeno 40 anni che si assiste, a volte sgomenti, altre volte addolorati, altre volte, stanchi o meglio scocciati, al ritrovamento di corpi senza vita recuperati nel bacino del Mediterraneo. All’ultimo festival di Sanremo c’è un passaggio nella canzone Casa mia di Ghali che richiama i tanti conflitti bellici, e rimanda alla terra, casa comune: «Casa mia /casa tua /che differenza c’è? Dal cielo è uguale giuro».

Purtroppo siamo abituati a conoscere o, meglio, vedere i migranti solo quando arrivano sulle nostre terre, difficilmente si parla delle motivazioni che li portano a scappare. Una su tutte: i loro Paesi sono segnati dalle conseguenze lasciate dagli Stati postcoloniali. Quindi l’Occidente! Quindi anche l’Italia!

Non è forse questo il messaggio di Papa Francesco: “Liberi di scegliere se migrare o restare”? La storia ci insegna che tutte le civiltà hanno trovato la loro costruzione e il rinnovamento attraverso le migrazioni. Senza andare troppo lontano basterebbe considerare i precedenti secoli. Noi italiani, in particolare del Sud, abbiamo “invaso” il mondo alla ricerca di un futuro migliore. Nelle Americhe, in Australia, nel Nord Europa. Tutti i popoli, sull’intero globo terrestre, con oltre 160 milioni di persone, hanno trovato collocazione e integrazione contribuendo in modo essenziale alla crescita economica, culturale, umana, religiosa.

Oggi la malavita investe sui poveri disgraziati: sono una risorsa da sfruttare che rende bene con “carrette” del mare, con il racket della prostituzione e del caporalato. Da decenni il fenomeno migratorio trova nelle politiche dei governi che si sono succeduti, in Italia e in Europa, costanti ostacoli alla circolazione delle persone, impedendo i ricongiungimenti familiari. Al contrario, c’è stato un incremento del libero mercato delle merci, del commercio dei beni. Basterebbe vedere come proprio in questi giorni le rotte commerciali del mare vengono difese con il rischio di una guerra mondiale. Se nei secoli precedenti le motivazioni che spingevano la nostra gente a spostarsi erano sintetizzate nel sogno americano o australiano, oggi si scappa da povertà, miseria, guerre, ingiustizie, persecuzioni. Sta emergendo una nuova figura del migrante, quella del rifugiato, che scappa dai deboli regimi dittatoriali, da guerre civili che hanno procurato e continuano a procurare milioni di vittime.

Dopo la tragedia di Steccato di Cutro, risuonano, ferme e decise, le parole di Papa Francesco, voce di chi non ha voce: «Fermare i trafficanti, non continuino a disporre della vita di tanti innocenti… I viaggi della speranza non si trasformino più in viaggi della morte… Che il Signore ci dia la forza di capire e di piangere».

Quale monito dalla tragedia di Steccato di Cutro? Ora si celebra l’anniversario, si riaccendono i riflettori, sentiamo le solite dichiarazioni, rivediamo, con gli occhi del ricordo e di uno sgomento non ancora spento, i corpi galleggianti: i “più fortunati” recuperati, riconosciuti e seppelliti. Tanti altri rimarranno senza nome in una tomba comune. Il mare, che oggi accoglie e custodisce la loro memoria, domani giudicherà questo nostro tempo così grigio e disamorato della vita; questa umanità, non più popolata da amici, figli o fratelli che, riconoscendosi, si incontrano, ma da nemici che si scansano quando non si uccidono.

Il rapper milanese Dargen D’Amico, nella canzone che ha presentato a Sanremo, Onda Alta, parla dei migranti e dei rischi che affrontano nell’attraversare il mare, ma anche della vita da affrontare in un paese che spesso si rivela ostile: «Se basta un titolo a fare odiare un intero popolo». Tra le righe della canzone si coglie il richiamo al patriarca Noé e cantando un nuovo diluvio universale dice: «Sta arrivando l’onda alta, / non ci resta che pregare finché passa». È l’onda che sta sommergendo questa nostra società che ha dimenticato cosa significa “persona”, anzi la considera un numero, e intanto l’onda vera è quella di chi naviga «verso Malta, senza avere nuotato mai nell’acqua alta». È allora che mi chiedo chi siano i veri naufraghi…

Di Antonio Giuseppe Caiazzo da Avvenire di domenica 25 febbraio 2024

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