Esiste il diritto di ricercare la felicità?

La condizione umana ci vede uguali nella dignità, ma diversi per capacità, attitudini, stili cognitivi, al punto che nessuno è mai identico a qualcun altro che visse, vive o vivrà.

Da un po’ di tempo mi capita di pensare alla condizione umana con le categorie descritte da Hannah Arendt in quello che è il suo saggio più geniale ed efficace: The human condition, pubblicato in italiano col titolo Vita activa (1958). La filosofa ebrea qui non parla da politologa – com’è generalmente conosciuta per la sua definizione della banalità del male – ma tratta dell’esistenza di ogni singolo uomo come essere unico e insostituibile, seguendo una traccia che percorre tutta la cultura ebraica. Infatti, mentre la singolarità psicofisica di ogni persona è stata dimostrata solo in tempi relativamente recenti dalle neuroscienze, essa è da sempre un’acquisizione radicata nei principi della cultura biblica ed in particolare nella tradizione rabbinica.

Per l’Arendt, l’unicità del destino di ogni uomo è tale da far dilatare le aspettative nei riguardi della sua esistenza, ponendo l’accento sul contributo che ognuno offrirà alla comunità per il solo fatto di essere nato, nello sviluppare e dispiegare i suoi talenti naturali, quali che siano. C’è in questo pensiero un’enfasi ottimistica sulla vitalità, sulla ‘natalità’ piuttosto che sulla condizione di ‘mortalità’ dell’uomo: uno slancio vitale che considera la venuta al mondo di ogni essere umano come sorgiva promessa di originalità, fonte di stupore e attesa di autorealizzazione. In altre parole, il neonato esibisce con la novità del suo comparire sulla scena del mondo l’imprevedibilità delle sue future imprese di essere singolare e insostituibile. Solo in quest’ottica è possibile radicare il pensiero nell’esistenza, riscoprire il corpo, rivitalizzando un pensiero incarnato. Il corpo stesso rappresenta la nostra unicità e singolarità radicale, il che comporta la responsabilità di ciascuno di manifestare nel corso della vita le proprie peculiarità psicofisiche, nonché il dovere (oltre al diritto) di rivelare i propri talenti per farne dono alla comunità. L’imperativo è: ‘Uomo, diventa ciò che sei’ e: ‘Se non ora, quando?’ Per logica conseguenza, si afferma anche l’obbligo da parte di genitori ed educatori di non contrastare o orientare dall’esterno attitudini e inclinazioni identitarie dei ragazzi, neppure con le migliori intenzioni!

Certo, una comunità di esseri unici e insostituibili è una gran bella invenzione della natura, ma quanti ne sono veramente consapevoli? Quanti si accorgono di come sia prezioso l’altrui contributo in politica, nelle istituzioni, nelle associazioni o perfino in famiglia, ed in particolare in quel microcosmo che è lo scambio emotivo-affettivo della relazione di coppia? La capacità di ascolto del partner e la comprensione del suo bisogno di riconoscimento non è una dote innata ma un atteggiamento da acquisire con un vero e proprio allenamento dialogico, che preservi entrambi i protagonisti dall’autoreferenzialità e da eventuali atti di prevaricazione subita o esercitata. La gelosia possessiva di un amore malato devasta la vita di coppia, impedendo con ricatti morali e ripetuti atti di violenza psicologica e/o fisica l’estrinsecarsi delle migliori energie psicofisiche del soggetto più arrendevole o fragile, spesso disposto a rinunciare alle proprie giuste ambizioni di autoaffermazione pur di non far vacillare il faticoso equilibrio di un rapporto sbilanciato e tentare di contenere le perverse e ingiustificate dinamiche di controllo di cui è fatto oggetto. Molti di questi rapporti nevrotici talvolta sfociano nel delitto – quasi sempre nel femminicidio – ma, anche se non si giunge a tanto, in ogni caso sottraggono alla società risorse di genuina creatività culturale che restano latenti in chi è intimorito da ritorsioni e soprusi. Secondo il filosofo Martin Heidegger, maestro e compagno della Arendt, noi siamo sani quando riusciamo a reggere l’inquietudine e ci interroghiamo, sottraendoci alle situazioni di ingiustificata soggiacenza.

Il fatto che l’uomo sia capace di azione, chiarisce la Arendt, significa che da lui ci si può attendere l’inatteso e ciò che è infinitamente improbabile. L’azione corrisponde alla condizione umana della pluralità, al fatto cioè che GLI UOMINI – e non l’uomo in astratto – abitano il mondo. A sua volta la pluralità, intesa come interscambio, reciprocità, cooperazione nella diversità, è la premessa di ogni azione e di ogni apprendimento. Essa è il presupposto della condizione umana che ci vede uguali nella dignità, ma diversi per capacità, attitudini, stili cognitivi, al punto che nessuno è mai identico a qualcun altro che visse, vive o vivrà.

Di contro, la società in cui viviamo è centrata sull’individualismo e sulla competitività, finora ritenuti fattori di successo e autorealizzazione. La famiglia non esercita più ormai da tempo la funzione, che pure dovrebbe esserle peculiare, di educare all’affettività e ai sentimenti una prole sempre meno numerosa e – di conseguenza – deprivata di adeguate esperienze relazionali. Per quanto mi risulta, neppure la scuola è attrezzata per incoraggiare adeguatamente la ricerca identitaria, fondamentale nella formazione degli studenti, né tanto meno la loro attitudine alla cooperazione cognitiva ed emotiva. All’interno della stessa collegialità docente talvolta domina la tentazione del personalismo piuttosto che la genuina ricerca collaborativa, che renderebbe la didattica un campo privilegiato di elaborazione culturale e di successo relazionale. La paura, l’invidia, la sfrenata competitività – emozioni tossiche descritte da Goleman (1997) come vera e propria iattura della nostra epoca – impazzano ancora in tutti i campi. E lo si vede bene in politica, dove l’imperversare delle dinamiche di potere impedisce di apprezzare perfino la libertà democratica, che consentirebbe di mettere a frutto quella maieutica reciproca che in qualche modo ci fa tutti filosofi.

Così come la nascita fonda l’unicità dell’uomo, la società dovrebbe favorire l’estrinsecarsi di un agire collettivo che realizzi la ’felicità politica’ di cui già parlava Epicuro nella Lettera a Meneceo.

Non si è mai troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell’anima. Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza di essa, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di essere felice o che ormai è passata l’età. Da giovani come da vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre giovani quando saremo avanti con gli anni, in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a non temere l’avvenire. Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la felicità, perché quando essa c’è tutto abbiamo, altrimenti tutto facciamo per averla.

In tempi a noi un po’ più vicini, nel clima della neonata Repubblica Napoletana del 1799, Gaetano Filangieri – ispirandosi alle idee illuministe – riconosceva tra gli altri diritti inalienabili della persona il diritto di ricercare la felicità. Questa felice intuizione non sfuggì a Benjamin Franklin, che ebbe l’occasione di approfondire il concetto leggendo in italiano l’opera del patriota partenopeo e fece inserire la ricerca della felicità fra i diritti riconosciuti nella Dichiarazione di Indipendenza e successivamente nel testo della Costituzione degli Stati Uniti d’America, redatta nel 1787 dallo stesso Franklin. A tutt’oggi, non risulta che ci siano state altre nazioni ad aver avuto l’ardire di fare altrettanto, neppure a più di due secoli di distanza.

Lo scenario che si prospetta a noi contemporanei, assetati di felicità in tempi di pandemia, è quello di dar vita alla relazione dialogica della Filosofia civile come teatro dell’unicità e della collettività: un teatro interattivo, uno spazio aperto che riattualizzi la nascita; un’azione che si faccia lievito nella dimensione comunitaria. D’altronde, i processi storici non sono forse creati ed interrotti di continuo dall’iniziativa umana, da quell’initium che è l’uomo in quanto agisce?

Nel rivendicare dunque questo originario e inalienabile diritto alla felicità come cura di Sé (a tutte le età, in tutte le condizioni) non ci resta che fare in modo da facilitare questa azione sorgiva, attiva, inattesa, che produce benessere perché realizza l’umano.

Per gentile concessione di Franco Genzale, dall’omonimo sito web

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Mirella Napodano

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