Gli otri vecchi dell’autonomia differenziata regionale

È trascorso un quarto di secolo da quando si è cominciato a parlare di autonomia delle regioni a statuto ordinario. Il rischio che ci vogliano ancora molti anni per completarlo è concreto. Si potrà tenere fermo il paese in attesa che tutto questo si realizzi?

Il dibattito sull’autonomia differenziata delle regioni, come era prevedibile, sta alimentando accese polemiche. Qui proviamo a proporre un approccio più sereno al problema. E ci proviamo con le parole del Vangelo, quando ammonisce che non si può mettere “il vino nuovo in otri vecchi”.

Dice la parabola evangelica: “Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio; altrimenti il nuovo lo strappa e al vecchio non si adatta il pezzo preso dal nuovo. E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spaccherà gli otri, si spanderà e gli otri andranno perduti”.

Chi intende portare avanti un processo autonomistico delle regioni dovrebbe chiedersi di quali regioni si parla; sempre infatti si dovrebbe considerare la natura di un contenitore e la sua capacità di contenere qualcosa di nuovo, come suggerisce l’esempio degli otri fatto dal Vangelo. Ciò che oggi gli economisti intendono per regioni, infatti, è una realtà ben diversa dall’idea delle regioni che avevano i padri costituenti quando queste sono state inserite nella Carta, al tempo lontano della nascita della Repubblica.

Le regioni, come sono definite dalla Costituzione italiana sono realtà amministrative disegnate prevalentemente col criterio dell’omogeneità del paesaggio di un determinato territorio. Il paesaggio però, questo è evidente, dice ben poco dell’organizzazione sociale del territorio e ancor meno del sistema economico che lo regge.

Quando gli economisti parlano oggi di regioni intendono piuttosto un territorio caratterizzato dalla presenza di un importante centro urbano che svolge efficacemente la funzione di polarizzatore di una complessa rete di relazioni, infrastrutture, scambi, servizi, conoscenze, eccetera. Sono le Città metropolitane, volute dalla Costituzione, attorno alle quali dovrebbero ridefinirsi le realtà regionali. Questo però si può verificare quando il territorio ha dimensioni sufficienti a creare queste condizioni. Non a caso la stessa Costituzione stabilisce che per istituire una nuova regione è necessario che il territorio regionale abbia una popolazione di almeno un milione di abitanti. Ed è questa un’indicazione minimale. In realtà, regioni con una popolazione inferiore a tre milioni di abitanti hanno scarse possibilità di costruire un sistema sufficientemente complesso da avere un certo grado di autonomia.

Del resto, anche subito dopo l’approvazione della carta costituzionale emersero queste difficoltà, tanto è vero che si è dovuto attendere gli anni Settanta per vedere istituite concretamente le regioni. Illudersi oggi di rilanciare il sistema economico italiano poggiando sulle realtà regionali, concepite secondo modelli amministrativi vecchi di circa un secolo, ha possibilità di successo veramente scarse. Diverse regioni italiane non hanno i numeri per reggere un processo del genere e questo porterà inevitabilmente a dissesti che peseranno sull’intera economia nazionale. Anche di quelle regioni ricche che avranno appena il tempo di quantificare la loro accresciuta ricchezza che si vedranno investite da ondate migratorie tali da far saltare tutto in aria.

Ma poi, diciamo la verità: è proprio sicuro che i lombardi, i veneti vogliano l’autonomia? Quello che interessa a un veneto, a un lombardo è veramente la sovranità del Veneto o della Lombardia? Probabilmente quello che interessa a queste popolazioni e ai soggetti economici regionali sono le potenzialità del sistema industriale e le condizioni ottimali per operare nei mercati.

Su questo giornale abbiamo messo in evidenza le iniquità e le storture di tale modello di autonomia, adesso vogliamo sottolineare piuttosto la sua irrazionalità. Il massiccio trasferimento dei poteri alle regioni dovuto all’autonomia differenziata pone problemi tutt’altro che trascurabili. Il nostro sistema democratico si regge, e bisogna riconoscere che si è retto bene, sul principio dell’equilibrio dei poteri. Come riequilibrare i poteri dopo lo sbilanciamento a favore delle regioni? Una delle ipotesi che si fa da parte dell’attuale governo è quello del presidenzialismo. Ma questa diarchia presidente-regioni avverrebbe a scapito del parlamento che invece per il diritto costituzionale è centrale essendo la forma di governo prevista per il paese una repubblica parlamentare.

L’autonomia differenziata presuppone un processo di transizione complicatissimo che non potrà essere risolto con un semplice passaggio parlamentare – anche questo, del resto, tutt’altro che rapido. È trascorso un quarto di secolo da quando si è cominciato a parlare di autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario. Il rischio che ci vogliano ancora molti anni per completarlo è concreto, checché ne dicano le promesse dei partiti; basti pensare al tempo che ci vorrà per raggiungere la richiesta parità tra nord e sud nei LIP, i Livelli essenziali delle prestazioni, imprescindibile condizione posta dalla Costituzione per avviare un processo di autonomia regionale.

Pensare di derogare a queste disposizioni costituzionali con il ricorso allo strumento del trattato internazionale, equiparando cioè le regioni a uno stato straniero e quindi ponendo il trattato al di sopra della Costituzione non è una cosa semplice; la Corte costituzionale rimarrà inerte di fronte a questa hybris autonomistica? C’è poi il vincolo costituzionale del fondo perequativo a favore dei territori con minore capacità fiscale per abitante. Se ne faranno carico le Regioni?

Si potrà tenere fermo il paese in attesa della piena autonomia regionale? Ma poi che senso avrebbe perdere tanto tempo, ben sapendo quali sono i veri problemi del paese? Si dica una volta per tutti la verità: non è vero che gli operatori economici del nord facciano dipendere la competitività delle loro imprese dall’affermazione del modello autonomistico della Padania. Non c’è un solo imprenditore del nord che pensi questo.

Quello che serve veramente è semplice e la classe politica lo conosce benissimo. Quello che serve all’economia del nord è uno snellimento della burocrazia e un fisco più equo. Quello che serve all’economia del sud è più lavoro e più infrastrutture. Quello che serve all’intero paese è una razionalizzazione sia della spesa pubblica sia delle risorse energetiche.

In altre parole, all’Italia serve un abito nuovo e bisogna con urgenza provvedervi. Non si perda tempo a strappare “un pezzo da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio; altrimenti il nuovo lo strappa e al vecchio non si adatta il pezzo preso dal nuovo”.

Conferenza delle Regioni e delle Province autonome
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Paolo Tritto

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