I quattro quarti di povertà di Marcello D’Orta e la sua eredità

In un libro il maestro della scuola “sgarrupata” di Arzano racconta i suoi anni Sessanta. Ma c'è tanto di più che vale la pena conoscere.

Di Marcello D’Orta si sa che è l’autore del fortunato Io speriamo che me la cavo, libro che riporta un’irresistibile antologia dei temi degli alunni di quella scuola dove questo maestro ha insegnato; la scuola più “sgarrupata” d’Italia, la scuola elementare di Arzano, nel comprensorio della città metropolitana di Napoli.

Il successo del libro – due milioni di copie vendute – e il film che ispirò, diretto da Lina Wertmuller e con Paolo Villaggio nei panni del maestro D’Orta, hanno catalizzato l’attenzione del pubblico mettendo un po’ in secondo piano il talento di questo grande educatore napoletano. Il quale, oltre a rivelarsi come tale, è stato anche uno degli eredi dell’umorismo partenopeo e – questo non è poco – tra i più originali studiosi di Giacomo Leopardi, il grande poeta che ebbe la fortuna, nonostante le note sfortune che gli capitarono, di trascorrere gli ultimi anni della sua esistenza proprio nella città partenopea.

Merita qualche cenno la biografia di Marcello D’Orta; qualche nota si può trovare in un altro suo libro che si intitola Era tutta un’altra cosa. I miei (e i vostri) anni Sessanta, pubblicato nel 2012 da Barbera Editore. È un volume nel quale emergono gli aspetti più personali del maestro, insieme a quelli più problematici. Il libro è dedicato agli anni Sessanta, soprattutto alla nostalgia di quegli anni; lo suggerisce lo stesso sottotitolo del libro che l’autore volle mettere, come disse con un po’ d’ironia, perché del libro non ci si limitasse a leggere soltanto il titolo.

Quali erano gli aspetti “problematici” con cui si era alle prese negli anni Sessanta? Beh, non è una domanda molto difficile: erano la povertà e i suoi annessi. Infatti, negli anni Sessanta, chi più chi meno, un po’ tutti erano poveri.

«Vico Limoncello è un budello della vecchia Napoli» scrive D’Orta, «dove il sottoscritto vide la luce il 25 gennaio 1953. Ero quinto di sei figli, tutti che avevano fatto la fame o che l’avrebbero fatta di lì a qualche anno (mia sorella). Fare la fame era una tradizione di famiglia. Mio padre l’aveva ereditata dal genitore, che a sua volta l’aveva ricevuta per successione dal padre, e così via, credo fino a giungere a un Vitellozzo o un Guidobaldo D’Orta servitore della gleba. In fatto di privazioni economiche, neanche mia madre scherzava. Attraverso l’ammaestramento orale della sua famiglia, e soprattutto la pratica della ristrettezza, era giunta al matrimonio nelle stesse condizioni di mio padre, cioè senza una lira».

Per questo, si può dire che il maestro Marcello D’Orta poteva vantarsi di avere i quattro quarti di povertà. Come altri potrebbero vantare, per una diversa genealogia, i quattro quarti di nobiltà. Marcello D’Orta poteva vantarsi di essere povero ed effettivamente se ne vantò.

«A otto anni feci la prima comunione e anche la cresima» scrive il nostro autore. «Di quella cerimonia non possiedo una sola fotografia». Come non ci furono allora riprese video. Perché non c’erano soldi per i fotografi ma, certamente, anche perché c’era poco da riprendere: niente festa al ristorante, niente vestiti da cerimonia, niente regali, nemmeno un parente disposto a fare il padrino di cresima. Non per questo, disse, fu meno felice di ricevere per la prima volta il corpo di Cristo.

Arrivò, per la famiglia D’Orta, il momento di traslocare dal “budello” di via Limoncello. Andarono ad abitare in via Duomo, in un palazzo abitato da suore, una casa che «somigliava a una villa pompeiana. Dopo l’eruzione. Era tutto in rovina». Stavano meglio i Cimmeri nel sottosuolo di Napoli, commenta il maestro. I napoletani, almeno i vecchi napoletani credono, o vogliono credere, che il sottosuolo di Napoli sia abitato dai Cimmeri, popolazioni nomadi provenienti dalla Russia e finite chissà come a stabilizzarsi negli ipogei napoletani. Ma lasciamo perdere questo argomento perché, con i tempi che corrono, se una cosa del genere si venisse a sapere, non è escluso che a Putin gli venga in mente di indire un referendum e così, come per la Crimea e altri territori, annettere alla Russia anche Napoli perché, sotto sotto, anche Napoli è abitata da russi. Il maestro D’Orta ci perdoni se ci siamo permessi di aggiungere questa insinuazione alle sue innocenti parole.

La famiglia D’Orta, comunque, nella casa di via Duomo aveva qualcosa che i Cimmari e tanti altri russi non hanno: «l’appartamento, all’ultimo piano, aveva un pregio: era inondato di sole. […] Per i primi giorni trascorremmo le ore affacciati a prendere il sole, neanche fossimo su una spiaggia».

L’appartamento di via Duomo era proprio a ridosso della Cattedrale, «che a momenti si poteva toccare con mano». Perciò, via Duomo, oltre a essere “inondato di sole”, veniva inondato di fedeli che, nei giorni stabiliti, accorrono a vedere il miracolo di San Gennaro. Miracolo che in realtà sono due, scrive giustamente D’Orta; perché il secondo miracolo è vedere che c’è ancora qualcuno che va a pregare un santo.

Finché, conclude Marcello D’Orta, «nel 1963 o ‘64 acquistammo un frigorifero, una lavatrice e un salotto in teck svedese». Uno dei tanti miracoli del “miracolo economico” degli anni Sessanta che finalmente pose fine alle maggiori ristrettezze della famiglia.

La domanda che il lettore si porrà leggendo questo libro è perché, pur essendo così poveri, negli anni Sessanta si era felici. Non è una domanda cui Marcello D’Orta avrebbe difficoltà a rispondere. Era felice, diceva, perché negli anni Sessanta lui era un ragazzo. E un bambino dell’epoca, per esempio, poteva leggere il Corriere dei Piccoli. «In un mondo familiare fatto di povertà» scrive D’Orta, «il milione del Signor Bonaventura sembrava in parte toccare anche a te». 

Marcello D’Orta è morto a Napoli nel novembre del 2013. Molti lo ricordano per il suo libro Io speriamo che me la cavo che è ormai considerato un classico dell’umorismo; molti lo hanno ammirato per la sua passione educativa che riversò sui suoi fortunati scolari. Molti di più sono coloro che lo ricordano per la sua bontà e per la sua serenità.

Che cosa può lasciare in eredità chi, per discendenza, vanta i quattro quarti di povertà? Si potrebbe rispondere: niente. Invece, prima di morire, il maestro andò a bussare al convento di San Francesco da Paola che si trova nella sua città. Ci era andato per manifestare la volontà di suo figlio Giacomo di entrare nell’Ordine dei Minimi, come un frate povero tra i poveri. Questo suo figlio, che aveva chiamato Giacomo per ricordare Giacomo Leopardi, era il suo unico figlio. E il maestro lo volle offrire alla Chiesa, nell’ultimo e più radicale gesto del suo ideale di povertà.

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Paolo Tritto

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