Il cero pasquale

Il cero pasquale è simbolo liturgico di Cristo Risorto e richiama la colonna di fuoco che guidava gli Ebrei in fuga dalla schiavitù egiziana. Nella veglia pasquale il nuovo cero viene preparato, acceso, incensato, immerso nel fonte battesimale.

Segni liturgici

Il cero pasquale è simbolo di Cristo risorto.

A motivo della novità assoluta che Cristo rappresenta nella storia, in ogni veglia pasquale si inaugura un nuovo cero. Ad esso può essere opportunamente dato risalto – nel primo momento della veglia – con alcune parole e gesti significativi del sacerdote che presiede la celebrazione: vengono ripassate con uno stilo la croce, le lettere “alfa” e “omega” e le cifre dell’anno corrente raffigurate sul cero mentre il sacerdote dice: “Il Cristo ieri e oggi, principio e fine, alfa e omega: a Lui appartengono il tempo e i secoli”.

La preparazione del cero pasquale
prima dell’accensione dello stesso.

Quindi, possono essere infissi nel cero cinque grandi grani di incenso, segno delle cinque trafitture di Cristo in croce: sul capo, sulle mani, sui piedi, nel costato.

Subito dopo, attingendo la fiamma al fuoco “nuovo”, anch’esso simbolo di Cristo risorto, acceso all’inizio della stessa veglia, il sacerdote accende il cero dicendo: “La luce del Cristo che risorge glorioso disperda le tenebre del cuore e dello spirito”.

E’ bello ed utile quando ai fedeli che partecipano alla veglia è consentito avvicinarsi al cero mentre viene preparato e acceso.

Il cero, acceso, viene portato processionalmente, seguito dai ministranti e da una rappresentanza del popolo – come quel popolo che nell’Esodo fuggiva dall’Egitto guidato dalla colonna di fuoco – accanto all’ambone. Lì viene incensato e vi rimane abitualmente per tutto il periodo pasquale.

E mentre il cero avanza in chiesa, alla triplice acclamazione del sacerdote “Cristo, luce del mondo”, si accendono un po’ per volta le candele dei fedeli – se le hanno ricevute – e le luci della chiesa. È rigorosamente dal cero pasquale, o da altre candele che dal cero sono state accese, che devono attingere la fiamma le candele che eventualmente sono state consegnate ai fedeli: non da altre fonti, perché è da Cristo che attingiamo la luce nella nostra vita.

Ad un certo punto della veglia pasquale, il cero pasquale viene portato al fonte battesimale (nella cosiddetta liturgia battesimale, terza parte della veglia pasquale) ed in esso immerso una o tre volte. Purtroppo, forse non tutti, dal proprio posto, riescono ad osservare questo segno pregnante che significa Cristo che feconda il grembo della Chiesa (il fonte battesimale), sua sposa, dal quale nasceranno quest’anno nuovi figli a vita nuova col Battesimo. Finito questo momento, il cero si ricolloca presso l’ambone.

L’immersione del cero pasquale nel fonte battesimale, grembo della Chiesa

Nei giorni immediatamente successivi alla Pasqua, inoltre, è consigliabile che il cero sia abbellito con composizioni floreali e, così, diventa anche un segno più evidente per chi entra in chiesa.

Fuori dal tempo di Pasqua, il cero pasquale viene acceso solo in occasione dei Battesimi – presso il fonte battesimale – e dei funerali – presso la salma del defunto: ovvero per la prima e l’ultima Pasqua del cristiano.

I ceri pasquali sono talvolta delle bellissime opere d’arte, come le antiche miniature conservate nei monasteri. È proprio in ambito monastico che spesso i ceri si realizzano: quello che vediamo nella foto più in alto, che ritroviamo in molte parrocchie della Diocesi, è stato decorato dalle Clarisse di Basilicata nel monastero “S. Chiara” in Potenza. Il tema di questo cero è ‘S. Giuseppe’, essendo quest’anno dedicato al patriarca di Nazareth, e pertanto sono stati rappresentati su di esso dei gigli, segno di castità, una lampada, che nell’iconografia è spesso associata al padre di Gesù, e vi compare la scritta «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21).

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Giuseppe Longo

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