Le catechesi, i gruppi di lavoro, le meditazioni, l’adorazione, le celebrazioni eucaristiche giornaliere e i momenti comunitari del Congresso Eucaristico Nazionale – Galleria fotografica

I momenti del Congresso Eucaristico sono stati tanti, alcuni con maggiore visibilità, altri con minore. Certamente quelli più importanti e visibili sono stati i momenti delle meditazioni, delle riflessioni, delle omelie - alcune delle quali sono riportate in questo servizio - altri meno visibili come le adorazioni svolte nelle varie chiese del Congresso con zero clamore ma con tanta intensità di preghiera e di spiritualità. Altri ancora sono del tutto invisibili quali il lavoro dei volontari, degli apprestatori delle opere, del servizio d'ordine, dei giornalisti che, pur rendendo pubblico il frutto del proprio lavoro, si sono mossi quasi nell'oscurità o comunque nel nascondimento. In questo servizio riporteremo, man mano che pervengono, tutti i vari contributi testuali, video o fotografici che siano. E' una miscellanea che fa piacere riportare per testimoniare l'oscuro che è presente, l'invisibile concreto.

Omelia del Card. Lazzaro You Heung-sik – Prefetto del Dicastero per il Clero in cattedrale

Fratelli e sorelle carissimi,
la gioia di poter presiedere questa Liturgia Eucaristica, nel contesto del XXVII Congresso Eucaristico
Nazionale, dal tema “Torniamo al gusto del pane – Per una Chiesa eucaristica e sinodale” è
illuminata dalla Parola che abbiamo appena ascoltato. La prima lettura ci ricorda, proprio in questi
tempi difficili e cruciali, che Dio “ha fatto bella ogni cosa a suo tempo” (Qo 3,11a), ed è per questo
che c’è “un tempo per” ed “un tempo per”, di nuovo e ancora. E questo non perché la storia si
ripeta inutilmente quanto stancamente, ma perché la storia che Dio guida ci abbraccia
continuamente tra “un tempo per” ed “un tempo per”, di nuovo e ancora. Ecco allora che al tempo
del pianto e del lutto segue il tempo del sorriso e della danza. Al tempo delle pietre scagliate e degli
strappi segue quello delle ferite raccolte e ricucite.
Dobbiamo sottrarre il mondo all’incantesimo malvagio del circolo vizioso, o, per dirla con Nietzsche
nei termini del nichilismo (da lui diagnosticato e teorizzato poi fino all’estremo) dobbiamo sottrarre
il mondo, dicevo, all’incantesimo dell’eterno ritorno dell’uguale (cfr. in particolare La gaia scienza e
Così parlò Zarathustra) che porta l’uomo inevitabilmente al di là del bene e del male. No! Il testo
sapienziale del Qohelet ci spiega in una sintesi perfetta perché possiamo cadere in questa trappola
e come uscirne: “ha posto nel loro cuore la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano
trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine” (3,11).
Noi avvertiamo il tempo fin dentro il nostro corpo: lo vediamo crescere, lo sentiamo cambiare, fino
a invecchiare e morire. Durante questo processo non dobbiamo mai fermarci ad un solo ed unico
“tempo per”, assolutizzandolo: resteremmo fuori dalla storia, estranei anche a noi stessi, arrivando
ad affermare e, purtroppo, anche a credere che tutto si ripete senza un motivo, senza uno scopo,
senza una direzione. Il nichilismo, appunto. Una guerra scoppia non perché la storia si ripete, ma a
causa dei nostri errori. Entrare in questa consapevolezza vuol dire tornare al mistero di Dio e aprire
la strada ad un nuovo “tempo per”. Tornare al mistero di Dio vuol dire rimettere nelle mani di Dio
il principio, la fine e il fine, o, detto nei termini del giardino dell’Eden, lasciare che sia Dio a stabilire
cosa è bene e cosa è male (Gen 2,17), facendo un continuo e approfondito discernimento sempre
alla luce della Sua Parola.
Tocca a noi prendere la croce del nostro tempo, pregare, adorare e aprire tante “case del sollievo
della sofferenza”, come San Pio da Pietrelcina, di cui oggi celebriamo la memoria, ci ha insegnato;
nostro dovere è aprire tanti altri “tempi per”, o, per usare le parole di Papa Francesco, tanti ospedali
da campo (cfr. intervista a La Civiltà Cattolica, anno 164, nr. 3918, 19 settembre 2013, pp. 449-477),
per curare, salvare e tornare a sperare, sognare e danzare.
La circolarità della storia, riposta nel mistero di Dio, perde la maledizione-tentazione dell’eterno
ritorno dell’uguale, per trovare la rotondità dell’abbraccio, che è poi quell’ostia che adoriamo e di
cui ci nutriamo e che ci tiene in vita ogni giorno, insieme, l’Eucarestia. Pane che dona la vita vera e
che Matera conosce bene. Pane di cui dobbiamo far riscoprire il gusto per tornare alla vita autentica, come ci suggerisce il tema di questo Congresso. Far riscoprire il gusto del pane è
permettere alle donne e agli uomini di buona volontà, sempre amati dal Signore, di riscoprire la
propria vera identità di figli e fratelli e sorelle tutti, poiché tutti creati a immagine e somiglianza di
un Dio che è comunione, Trinità d’amore eterno.
L’antica tradizione della lavorazione del pane di Matera conserva e trasmette tutt’ora questa
identità nella sua particolare modalità di impasto e nel vero e proprio cerimoniale originario dei
“tre tagli” sull’impasto stesso, monito per chi se ne ciberà a ricordare che la vita e l’energia che
riceverà da quel pane viene da un Dio che è comunione e che attende la nostra comunione tra di
noi in Lui per aprire nuovi tempi per.
Così è pure per la pagina del Vangelo di Luca: ci sarà un tempo giusto, favorevole, per i discepoli e
per le folle per sapere, comprendere e rivelare chi è veramente il Messia e chi siamo veramente
noi. Il tempo per la resurrezione è preparato, anzi, “deve” (Lc 9,22) essere preceduto dal tempo per
la passione. Ciascuno di noi deve passarci per testimoniare in prima persona che il Signore è
veramente risorto e noi con Lui, e quindi cominciare a consolare con la stessa consolazione con cui
siamo stati consolati (cfr. 2Cor 1,4).
Vorrei che questa evangelica necessità del tempo della passione per giungere al tempo della
resurrezione, sia sempre ben chiara ad ogni battezzato (immerso nella morte e resurrezione del
Signore), ad ogni persona presente, ora, qui, e in modo tutto particolare ad ogni sacerdote, ogni
diacono, ogni consacrato e seminarista che mi sta ascoltando, affinché non si scoraggi e non si perda
mai d’animo!
Con affetto, mi rivolgo in particolare a voi, Cari fratelli sacerdoti, non perdiamo mai di vista
l’orizzonte generativo del nostro ministero presbiterale che fonda nell’Eucaristia, come Cristo, il suo
essere altare, vittima e sacerdote. Ciascuno di noi, nello stupore dell’incontro quotidiano con il
Signore, nell’intimità della preghiera, nell’ascolto assiduo e fecondo della Sua Parola, lascia il
Cenacolo per raggiungere la Galilea degli uomini e delle donne, condividendo le loro gioie e dolori,
attese e speranze, asciugando lacrime, portando consolazione, seminando speranza. Il Signore ci
ha chiamato per portare il tempo della consolazione, della misericordia e della speranza. In un certo
senso, e più in generale, ci ha chiamati a portare quello che non c’è dove non c’è, come la cosiddetta
Preghiera Semplice attribuita a San Francesco esprime efficacemente:
Signore, fa’ di me uno strumento della tua Pace:
dov’è odio fa’ ch’io porti l’amore,
dov’è offesa ch’io porti il perdono,
dov’è discordia ch’io porti l’unione.
Signore, dov’è dubbio fa’ ch’io porti la fede,
dov’è errore ch’io porti la verità,
e dov’è disperazione la speranza,
dov’è tristezza ch’io porti gioia,
dove sono le tenebre ch’io porti Luce.
Poiché è dando che si riceve,

è perdonando che si è perdonati,
morendo che si risuscita a vita eterna.
Come possiamo allora non incontrare difficoltà, talora dall’aspetto insormontabile, e talvolta
addirittura inqualificabile? Non basta. Ci ha chiamati a fare questo seguendo le sue orme, cioè
mettendo i piedi dove li ha messi Lui e percorrendo la strada che ha percorso Lui. Chiedo allora
ancora aiuto alle parole di San Paolo per comunicarvi meglio quanto desidero dirvi e raccomandarvi
di ricordare sempre, sorelle e fratelli carissimi in Cristo: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse
la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Come sta scritto:
per causa tua siamo messi a morte ogni giorno, siamo considerati come pecore da macello. Ma in
tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso
che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezze né
profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù,
nostro Signore” (Rm 8, 35-39).
La Lettera ai cristiani della Chiesa di Matera-Irsina per il XXVII Congresso Eucaristico Nazionale,
dell’Arcivescovo Mons. Antonio Giuseppe Caiazzo, contiene diverse indicazioni in tal senso, per
poter portare o riportare dove manca o latita ciò che è assolutamente necessario. La sua redazione
è stata compiuta nell’ottobre scorso, prima del conflitto russo-ucraino. Tuttavia le emergenze
segnalate nel suo contenuto, non vengono superate ma drammaticamente confermate. È
importante e fondamentale rivederle quindi, sia pur brevemente, insieme. Insieme è un termine
fondamentale per un congresso eucaristico, insieme vuol dire essere in-comunione, e così, e solo
così, essere completi. Rimanda quindi all’essenza eucaristica e sinodale della Chiesa che fonda la
sua definitiva missionarietà. Non saremo mai abbastanza grati a Mons. Caiazzo per aver scritto a
chiare lettere che: “è nell’Eucarestia che Gesù si è fatto nostro cibo e bevanda di salvezza,
consentendoci di essere in comunione piena con Lui, attraverso la comunione che si vive con i
fratelli. È esattamente il contrario di quella forma rituale che diventa ripetitiva esclusivamente per
rispettare un precetto e ricevere la comunione ma senza vivere la comunione” (§ 1.2).
Da molti anni, vi confido che alla sera, durante il mio esame di coscienza, mi interrogo su quale sia
stato il mio rapporto con il Signore Gesù durante la mia giornata. Mi chiedo se ho realmente
incontrato Gesù nella Parola, Gesù nel fratello e Gesù nell’Eucarestia. Se sono riuscito a vivere la
Parola e se sono stato capace di comunione con i fratelli. Come Gesù che mi dona la Sua vita
nell’Eucarestia, anch’io ho saputo donare la mia vita al fratello? Solo vivendo con Gesù nella Parola
e nei fratelli si realizza il dono di una vita eucaristica, donata, in quella dimensione di sinodalità e di
missione a cui tutti siamo chiamati.
D’altronde l’intero documento si apre, dal punto di vista operativo, con la raccomandazione
programmatica di riprendere a “curare le relazioni” a 360° “con lo sguardo rivolto alle ferite
dell’umanità e del nostro paese” (§ 1.1). Quindi viene ricordato come Matera abbia conosciuto il
tempo di essere vergogna nazionale, e il tempo di essere “capitale europea della cultura” fino a
ospitare questo Congresso Eucaristico Nazionale (§ 2). E vogliamo ancora essere grati al Vescovo
Don Pino per aver declinato (vorrei dire “incarnato”) le implicazioni e le esigenze del mistero
eucaristico nella storia e nella vita concreta di questa porzione di Chiesa che è in Matera-Irsina,
poiché “il divino avvolge l’umano non dall’esterno o dall’alto semplicemente, ma da dentro ognuno
di noi, dalla nostra stessa carne “ (§ 3), ripercorrendo “gesti, segni, parole che nel corso dei secoli
hanno sacralizzato la quotidianità rivestendo ogni momento, soprattutto i più difficili e sofferti, di quella divinità capace di rendere l’umano unito al divino” (§ 4), infatti, “l’uomo, da sempre, ha
sentito il bisogno di stabilire con la terra un legame sacro” (§ 6).
Un legame che Matera, città della Madre (cfr. § 7), ha messo da sempre nelle mani di Maria, donna
eucaristica per eccellenza, Madre che “ha offerto al Signore la Carne innocente e il Sangue prezioso
che riceviamo sull’altare” (S. Giovanni Paolo II, Angelus, 5 giugno 1983, cit. in § 6), Madre che ha
portato in sé il mistero che lega la Chiesa all’Eucarestia, che ha creduto nel tempo della resurrezione
vivendo sino in fondo il tempo della passione, Madre della vita vera e concreta di ogni cristiano,
fatta di preghiera, adorazione e carità operosa. Un legame espresso anche nella venerazione
ultrasecolare di sant’Eustachio, patrono di questa Città. Come sappiamo, il nome Eustachio deriva
da eu, “bene” e stàchyus, “spiga”, dunque “che dà buone spighe” e perciò “produce un buon
raccolto”. Sotto il manto di Maria SS.ma della Bruna e sostenuti e incoraggiati dall’esempio di fede
intrepida di Sant’Eustachio, ripetiamo infine alcuni dei versi che concludono il primo capitolo del
documento:
è tempo di passare all’altra riva / mentre incombe la tempesta […]
è tempo di passare all’altra riva /
di vincere lo sgomento della paura /che chiude rotte d’uscita […]
è tempo di passare all’altra riva / con Gesù Pane di Vita […]
è tempo di passare all’altra riva […] / nell’abbandono di un abbraccio / […] bambino / in braccio a
sua madre.
Amen.

Matera, 23 settembre 2022

La seconda giornata dedicata alla Catechesi, il commento di mons. Pennacchio
 Meditazione con S.E. Mons. Gianmarco Busca, Vescovo di Mantova

Il gusto buono del nostro Pane

Dall’altare alle tavole della vita

«Semina, contadino – in nome del pane della tua casa,

non conosca limiti il tuo braccio;

questi grani che spargi, si verseranno

domani sulle teste dei tuoi nipoti.

Semina, contadino – in nome del misero affamato

non esca dimezzato il tuo palmo dal grembiule;

un povero oggi nella lampada del tempio

versò il suo ultimo olio per il raccolto di domani.

Semina, contadino – in nome dell’ostia del Signore

germi di luce straripino dalle tue dita;

in ciascuna delle spighe bianche di latte

maturerà domani una parte del corpo di Gesù»1[1].

Sono versi tratti dalla poesia «La semina» scritta da Daniel Varujan, ucciso a 31 anni durante il genocidio armeno, il quale vede nel pane il simbolo per eccellenza della vita. Il simbolo, per sua natura, ha molti strati e ci porta al cuore della realtà facendoci passare dalla crosta superficiale e visibile a livelli sempre più profondi e interni.

Gesù nel vangelo di Giovanni distingue il pane dal «pane dal cielo, quello vero» (Gv 6,32). Per raggiungere la verità intima del pane ci è chiesto di compiere un paziente e sapiente viaggio attraverso le varie tavole della vita sulle quali il pane viene posto e assume diversi significati. Seguiamo i passaggi del pane, immedesimandoci nel contadino della poesia a cui è rivolto l’imperativo: «Semina: in nome del pane della tua casa»; «Semina: in nome del misero affamato»; «Semina: in nome dell’ostia del Signore».

Percorriamo allora il viaggio del pane, passando di tavola in tavola, attraverso le tavole della creazione, della casa, della chiesa, della città, del Regno. Per tornare a gustare il pane contempleremo su ogni tavola il pane che è dono di Dio, ma anche frutto di una specifica partecipazione alla mensa di quella tavola da parte nostra.

Il Pane comune sulla tavola della creazione

«Semina, contadino: non conosca limiti il tuo braccio»

La creazione è una tavola imbandita da Dio: tutto ciò che esiste è amore divino fatto cibo per nutrire l’uomo.

L’uomo sacerdote della Terra

Come partecipa l’uomo alla tavola della creazione? C’è una ritualità propria che svolgono gli agricoltori, sacerdoti della terra, sull’altare dei campi. È un atto liturgico preparatorio che don Primo Mazzolari descrive in una magnifica pagina dedicata all’offertorio della Messa che, in certe mattine di giugno, inizia appena apre la finestra e gli vien dentro un campo di spighe che gli abbraccia gli occhi e il sogno.

«Dopo, nella Messa, vedo la mia Chiesa mutarsi in campo e tutte le spighe curvarsi. È la fatica della mia gente che, adorando, si salda nell’Agonia e nel Dono del Signore… Quando alzo il Pane, esalto la carità di Dio e la fatica dell’uomo: porto nel cuore del Signore…le opere del mio popolo laborioso. […] L’uomo s’è incontrato con Te nel pane, ancor prima che Tu lo facessi per noi Pane di Vita… lo volesti compagno nel campo prima che sull’altare… Sulla patena c’è il nostro pane, la fatica, il popolo, tutto il suo patire»[2].

Merita maggiore solennità il gesto nobile delle braccia offerenti dei fedeli che presentano pane e vino, salendo processionalmente dalla navata in direzione dell’altare e manifestano che il pane è frutto della terra e opera delle mani dell’uomo. Nel caso specifico del pane, le mani svolgono un compito fondamentale nella sua lavorazione: mietono il grano, impastano la farina e l’acqua, plasmano la forma del pane. Nella tradizione di Matera, che il vescovo Antonio Giuseppe Caiazzo definisce “città del pane trinitario e della doppia natura divina e umana di Gesù”, la preparazione del pane è accompagnata da una ritualità propria: il segno di croce all’inizio, la forma del cuore, i tre tagli invocando la Trinità, i due giri con la pasta per ricordare la duplice natura di Cristo.

Il pane non è solo un prodotto della natura, ma anche della cultura. Il mondo non è solo un dono ma anche un compito per l’uomo, pensato dal Creatore come amministratore, poeta e celebrante del sacramento della vita, chiamato ad apporre sulla creazione il sigillo della sua custodia sapiente e della sua intelligenza creativa per svilupparne le infinite possibilità.

Gustare la vita contemplandola

Il nostro modo di partecipare alla creazione si esprime non solo nel lavoro, ma anche nel riposo contemplativo. Alla tavola della creazione celebriamo una sorta di eucarestia cosmica: il mondo visibile contiene un alimento spirituale perché attraverso i suoi doni gustiamo il Donatore.

La liturgia non si aggiunge alla creazione, piuttosto svela il senso del cosmo che Dio ha pensato e voluto come incentrato su Cristo (cf Col 1,16). Il primo chicco di grano comparso sulla tavola della creazione è già pensato in vista dell’ostia del Signore. C’è qualcosa di eucaristico in ogni particella della materia.

Niente nel cosmo è profano, ma tutto può essere profanato e reso volgare (pensiamo al degrado ambientale). Sulla tavola della creazione non c’è solo il gusto della fatica buona per il pane quotidiano; entra anche il retrogusto cattivo del lavoro sottopagato, dello sfruttamento minorile, del lavoro insicuro o fatto in condizioni non dignitose.

Il Pane della condivisione sulla tavola di casa

«Semina, contadino – in nome del pane della tua casa»

Dalla tavola della creazione il pane passa sulla tavola di casa, dove diventa pane della condivisione.

Gli Atti degli Apostoli riferiscono che i discepoli «rompevano il pane nelle case e prendevano il loro cibo insieme, con gioia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo» (2,46-47).

Prendere il cibo insieme è l’inizio della civiltà. Per noi umani il mangiare non è introiettare volumi alimentari, ma è creare convivio che, come dice la parola, è cum vivere, vivere insieme, favorire le relazioni tra familiari, vicini, amici, gruppi. Una comunità di lavoro e di vita si attiva per preparare il cibo comune e fare l’esperienza di nutrirsi della stessa sostanza: accettare lo stesso cibo, non avere pretese, saper accogliere il cibo stabilito è un modo di condividere. Il pasto diventa un’occasione di piacere, un rito creatore di senso e di legami, l’occasione per condividere ideali ed esperienze spirituali.

La tavola: prima scuola di umanizzazione

È vero che «l’uomo è ciò che mangia» (Ludwig Feuerbach), ma è altrettanto vero che l’uomo vive come mangia. La tavola di casa è la prima scuola di umanizzazione. Non c’è vita spirituale senza consapevolezza del significato attribuito al cibo, dell’arte di mangiare insieme, del vivere con stile la tavola. Spesso, per questo, il pane sulla tavola di casa è fatto oggetto di una prima venerazione naturale: viene benedetto, spezzato, se cade viene subito raccolto, pulito, baciato. Venerazione del pane è anche educazione ad avvertire lo scarto del cibo come un furto alla bocca del povero.

A tavola si attivano tutti i nostri sensi: non solo il gusto, ma anche l’olfatto che riconosce la bontà dei cibi dai profumi che emanano e ci rimandano a ricordi piacevoli. Quando si mangia insieme gli sguardi si incrociano, i volti si studiano e si contemplano e la parola prende forma. A tavola nasce il linguaggio, ci si nutre di conversazioni e delle emozioni che suscitano. L’occasione di mangiare insieme, potremmo dire, è il primo esercizio sinodale di ascolto: si prende la parola in modo ordinato, perché a tutti sia riconosciuto il diritto di parlare ed essere ascoltati e il dovere di lasciar parlare e ascoltare.

Mangiare con “stile” a tavola è la prima educazione alle relazioni. A tavola si sperimentano il rispetto (misurare la razione perché tutti possano prendere cibo a sufficienza) e l’accudimento: qualcuno ti prepara il cibo perché desidera conservare e incrementare la tua vita, che rappresenta per lui un bene prezioso. Servire a tavola è un tirocinio di attenzione all’altro, fatto di sguardi, di ascolto, di intuizione.

La tavola di casa, soprattutto un tempo, era una tavolata grande e oltre ai posti fissi dei familiari riservava posto anche per accogliere ospiti, spesso sconosciuti. Ci deve interrogare il fatto che le nostre comunità organizzano cene per i poveri ma, spesso, si è perduta la capacità di accogliere un ospite alla mensa di casa. Penso alle “solitudini” che popolano le nostre comunità: anziani rimasti soli e privati dell’esperienza della convivialità, persone in lutto e afflitte per la perdita del commensale di una vita, stranieri separati dalla famiglia. Condividere con questi fratelli il pranzo offrirebbe loro istanti di consolazione. Spesso il cammino più lungo da fare è quello per arrivare alla gente di casa nostra. Non è per nulla scontato che le tavole delle nostre case siano esperienza di ospitalità, accoglienza, dialogo, scambio…

I riti tristi attorno al cibo

Oggi c’è abbondanza di cibo, ma poca tavola. Eppure si creano dei riti tristi intono a cibi che alla fine non saziano e disgustano. Anzitutto la tavola di casa chiede di essere “abitata”. Ha un gusto amaro essere seduti allo stesso tavolo e percepire l’assenza dell’altro perché lo sguardo è catturato dalla TV o dal cellulare. I sensi ammutoliscono: si spegne lo scambio delle parole, manca il “faccia a faccia”.

La perdita del gusto buono del pane è oggi legata anche alla forte trasformazione della cultura del cibo: cibi pronti per abbreviare i tempi della preparazione domestica e “cibo di strada” (il fast food) chiamato spesso “cibo spazzatura”. Ci sono poi i ristoranti “mangi finché puoi” (“all you can eat”) dove sono in gioco l’eccesso, l’assenza del limite. Ci si può chiedere se queste pratiche siano dei riti felici del cibo. Il prendere cibo con moderazione, puntando sulla qualità, sul gusto e sui commensali: questa esperienza è generativa della convivialità che rende felici.

Recuperare il gusto di una buona umanità

La perdita della ritualità primordiale della tavola incide sulla capacità o meno di celebrare la vita come comunione con Dio. La sfida è aperta su due livelli: l’uomo di oggi ha bisogno di reimparare a mangiare per imparare a celebrare e imparare a celebrare per reimparare a mangiare. Un livello base del compito educativo della Chiesa è proprio aiutare a recuperare una ritualità delle azioni umane fondamentali: mangiare, abitare, vestire, far festa, far lutto, usare bene il tempo… L’ABC del cristianesimo è una educazione sapienziale all’arte della vita buona e bella laddove la vita della gente è spesso insipida, incolore, insapore…

Il Pane della comunione sulla tavola dell’altare

«Semina, contadino – in nome dell’ostia del Signore»

Il Signore invita alla sua tavola

La tavola centrale si trova nella camera alta del cenacolo. Non a caso l’Apostolo Paolo la chiama «tavola del Signore» (trápeza Kyríou: 1Cor 10,21), perché è la sua tavola. Accolto dai discepoli sulla strada di Emmaus, il Risorto è uno straniero ospitale, icona di Dio, Padre ospitale.

Non disertate le vostre assemblee!

Il primo modo di partecipare alla tavola dell’altare è accogliere l’invito del Signore che prende l’iniziativa di convocare. «Riunirsi insieme nel medesimo luogo» ha un duplice significato, allo stesso tempo spaziale e spirituale (At 2,1): indica l’unità di tanti in un luogo e l’unità dei cuori che convergono “attorno all’unico”, al Signore Risorto che è venuto per «riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Gv 11,52). Radunarsi in assemblea per la “cena del Signore” è l’atto sacramentale che genera la Chiesa come nuovo popolo di Dio che radunato intorno al Cristo diventa suo corpo. La Chiesa, dunque, si riunisce per fare l’Eucaristia affinché l’Eucaristia possa fare la Chiesa. Formare l’assemblea è l’atto liturgico primario e inizia quando i partecipanti si muovono dalle loro case verso la chiesa: «Non disertiamo le nostre assemblee» (Eb 10,25).

L’assemblea eucaristica: luogo di inclusione e riconciliazione

Sono diversi i motivi e le scuse addotti per disertare l’assemblea, uno di essi – e non il più trascurabile – è sentirsi indegni. L’invito di Cristo a partecipare alla sua mensa è rivolto a uomini indegni. Proprio nel suo sedere a mensa con lo straniero, l’impuro, il peccatore, il rabbi Gesù di Nazareth abbatte le barriere del puro e dell’impuro perché nella nuova creazione «verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio» (Lc 13,30) e tra i commensali c’è posto anche per «poveri, storpi, zoppi, ciechi» (Lc 14). Gesto sconvolgente che la Chiesa apostolica non ha avuto vergogna di raccontare. Anzi i vangeli, narrando come Gesù mangia e beve volentieri quando “fa visita” ai peccatori più disgraziati, testimoniano la conversione avvenuta nella nuova comunità dei discepoli.

Noi ci professiamo sempre indegni: l’Eucaristia non è mai un diritto o un premio, è sempre dono sovrabbondante di vita e di misericordia. Una lunga tradizione ecclesiale invita i fedeli, pur consapevoli della loro pochezza morale e spirituale, a non tenersi lontani dalla medicina dell’Eucaristia. Pietro Crisologo (vescovo di Ravenna, 406-450) scrive:

«Dio è accusato di chinarsi verso l’uomo, di sedersi vicino a un peccatore, di aver fame della sua conversione e sete del suo ritorno, di prendere il cibo della misericordia e la coppa della benedizione. Ma il Cristo, miei fratelli, è venuto a questo banchetto, la Vita è venuta tra questi convitati perché condannati a morte essi vivano con la Vita […]. Riconosciti peccatore e il Cristo mangerà con te. Entra con i peccatori al banchetto del tuo Signore e non sarai più peccatore»[3].

Il potere di perdono dell’Eucaristia non rende superfluo il sacramento della Riconciliazione; piuttosto nutre il nostro impegno di quotidiana conversione. Come dice Papa Francesco: «l’Eucaristia non è il premio dei santi, no, è il Pane dei peccatori. Ogni volta che riceviamo il Pane di vita, Gesù viene a dare un senso nuovo alle nostre fragilità»[4].

Partecipazione piena, attiva, consapevole e “sentita”

Alla mensa dell’altare partecipiamo con tutta la persona: mente, spirito e corpo sono coinvolti. La liturgia è un’esperienza “sensoriale” perché si entra nel mistero eucaristico attraverso le porte dei cinque sensi che sono come risvegliati e sfamati nel loro bisogno di bellezza, significato, armonia, visione, contatto, emozione. In uno dei suoi inni Efrem il Siro descrive la liturgia come «la santa cena dei sensi»[5].

Nella Messa tutti i sensi sono orientati alla comunione con il Signore in una progressione che va dal vedere, all’ascoltare, sino all’apice del contatto più intimo che è mangiare il pane spezzato. La vita è l’incontro tra la bocca e il cibo. Mettete in bocca il Signore (“Prendete e mangiate”: Dio deve essere mangiato!) e vedrete com’è delizioso il suo gusto: «Gustate e vedete quanto è buono il Signore» (Sal 34,9). Mangio, dunque sono parte del Signore e, gustando, conosco. Quando la bocca gusta il cibo, ogni dubbio scompare.

Mangiare alla mensa della Parola e del Pane spezzato

La mensa visibile, che è unica e viene apparecchiata quale ambone-altare, è presenza invisibile del dono pasquale del Signore. Non mi dilungo sul rapporto tra mangiare la Parola e mangiare il Corpo; ricordo solamente l’adagio patristico che diceva: non può ricevere Cristo sotto le specie del pane chi non lo ha ricevuto sotto le specie della Parola. I padri raccomandavano di non far cadere neppure una sillaba delle Scritture, con la stessa attenzione riservata al Pane eucaristico per non farne cadere a terra neppure un frammento[6].

L’apice della partecipazione: fare comunione al corpo sacramentale

Fare “la” comunione, si dice in genere. Leviamo l’articolo e va meglio: «il pane che noi spezziamo, non è forse comunione (koinonìa) con il corpo di Cristo?» (1Cor 10, 14-18). Entriamo in comunione con la Persona di Gesù, non un Gesù generico, ma il Gesù della Pasqua che ci attira nell’atto della sua donazione sulla Croce e nella potenza di lui risorto dai morti. Il banchetto è sacrificale.

Desta sempre stupore pensare che questa relazione di comunione consiste anzitutto in uno “scambio di doni”: abbiamo portato all’altare pane comune e, dopo la consacrazione, riceviamo in cambio pane del cielo: si riceve la Vita per la vita, l’Eterno per il tempo, e ciò che è pura grazia assomiglia ad uno scambio; è l’infinita generosità di Dio che lascia spazio anche per l’offerta degli uomini così che nella comunione che si instaura grazie all’Eucaristia anche Dio “riceve” qualcosa dall’uomo[7].

Fare comunione non è, poi, comunione ideale di pensieri e sensazioni interiori; è comunione vera e reale con il cibo-vita che è Gesù: un principio vivo che assimilo e che mi trasforma. Veniamo trasformati in Colui che riceviamo. Davvero l’Eucaristia ci fa «concorporei» e «consanguinei» di Cristo[8]. Ma la comunione non è un rapporto intimistico a due: Cristo e me; bensì un rapporto molteplice: è Cristo e noi!

La comunione al corpo ecclesiale

La domanda classica del mio catechismo di prima comunione poneva l’attenzione a cosa succede al pane e al vino durante la consacrazione. È una domanda vera, ma solo “a metà”. La domanda completa è: “Cosa succede a noi (all’assemblea) che mangiamo il pane e il vino consacrati”?

Nella preghiera eucaristica invochiamo lo Spirito due volte: perché trasformi il pane e il vino e perché trasformi noi (i comunicanti) in un solo corpo per essere offerta viva in Cristo (preghiera eucaristica III). È quanto esprime san Paolo quando mette in rapporto l’unico pane con l’unico corpo:

«Il pane che noi spezziamo, non è forse partecipazione al corpo del Signore (participatio corporis Domini)? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo (unus panis unum corpus): tutti infatti partecipiamo dell’unico pane (de uno pane participamur)”» (1Cor 10,16-17).

Commentando questo testo sant’Agostino pone l’accento sull’Amen:

«sulla mensa del Signore è deposto il mistero di voi: ricevete il mistero di voi. A ciò che siete rispondete: Amen e rispondendo lo sottoscrivete. Ti si dice infatti: Il Corpo di Cristo, e tu rispondi: Amen. Sii membro del Corpo di Cristo perché sia veritiero il tuo Amen… »[9].

L’Amen (che significa “così è – così sia”) pronunciato nel ricevere la comunione al corpo sacramentale, certamente professa la fede nella presenza reale di Cristo nel pane consacrato, ma più profondamente esprime l’adesione alla nuova identità di membro del corpo ecclesiale. Adesione che implica due aspetti: una rinuncia e un passaggio. Rinuncia all’impostazione isolata della vita e passaggio dall’individuo chiuso nell’auto-identità (io=io) alla persona che vive la coscienza di sé come coscienza della comunione.

Quando mangiamo la sua carne, Cristo diventa la vita di tutti, ci assume tutti in sé, come un centro nel quale le linee convergono, non restiamo estranei o nemici gli uni verso gli altri, in mancanza di senza un luogo comune ove manifestare la nostra amicizia e la fraternità. Cristo è il punto di incrocio delle nostre vite. Dove due o tre sono riuniti nel suo nome Cristo è tra loro (cf Mt 18,20). Questo “due” è come una nuova composizione chimica dei loro spiriti, quando “uno più uno” sono trasfigurati qualitativamente dallo Spirito di Dio e lasciano trasparire il terzo. Cristo è “in mezzo” e la forza della carità che circola in loro fa dei due una particella del Corpo di Cristo[10].

Il gusto delle relazioni fraterne e il gusto della propria personalità originale

Il dono dell’Eucaristia è anzitutto quello di vivere in una rete relazionale. Il gusto profondo del Pane disceso dal cielo è il gusto della vita sovrabbondante rappresentata dal dono delle relazioni di Cristo partecipate a noi. L’Eucaristia fa la Chiesa perché genera una gamma di relazioni di cui la comunità vive: relazioni filiali, fraterne e sororali, paterne e materne, relazioni sacerdotali verso il creato. Dio comunica sé stesso a noi e noi entriamo in comunione con lui; nello stesso tempo coloro che partecipano al sacramento entrano in comunione gli uni con gli altri e la creazione entra, attraverso l’uomo, in comunione con Dio.

Ma il gusto del Pane vivo ci fa assaporare anche una relazione nuova verso noi stessi. È falsa l’alternativa tra vivere per la comunione oppure vivere per sé stessi. L’Eucaristia santifica l’unità, ma santifica anche la vocazione originale a diventare ciò che Dio vuole che io sia, ciò che egli ha amato in me da tutta l’eternità. La comunità eucaristica è composta da personalità umane che non debbono mai essere viste come elementi o cellule di un tutto, il personale non viene dissolto nella massa. La Chiesa è sì un corpo, ma formato dalla sinfonia di personalità differenti, originali e uniche. Nell’Eucaristia la differenza smette di essere fonte di divisione e diventa buona. L’unità, lungi dal distruggerle, esalta la differenza e l’originalità, la multiformità dei carismi e delle vocazioni. Tutte le volte in cui questo manca, l’Eucaristia è vanificata.

Il retrogusto cattivo delle divisioni nel corpo ecclesiale

Accade un tradimento del rito se mancano l’anima interiore della carità e lo stile della condivisione. Può accadere anche a coloro che sono arrivati a gustare il Pane dell’altare e rischiano di tornare a pratiche di cattivo gusto, retrocedendo a tal punto da compromettere non solo la cena del Signore, ma la stessa tavola della condivisione del cibo. È il caso dei cristiani di Corinto che Paolo rimprovera per le divisioni interne alle assemblee eucaristiche svuotano, fino a negarlo, il senso autentico della cena del Signore (cf 1Cor 11). Alcuni fratelli, con spirito individualistico, mangiano «ciascuno» il proprio cibo senza aspettare gli altri. Qualcuno prende prima, o di preferenza, o per sé il cibo proprio, cioè non quello portato dagli altri, riducendo così il pasto comunitario a un semplice sedersi attorno allo stesso tavolo, convenendo in uno stesso luogo per mangiare il proprio pasto senza una vera condivisione di cibo messo in comune. Paolo contrappone la «cena del Signore» alla «propria cena» (to ìdion dèipnon), che potremmo tradurre “cena individuale”. Si perdono addirittura i valori umani del condividere insieme la mensa: «uno ha fame e l’altro è ubriaco» (v.21). Il tutto avviene a scapito dei più poveri, che portano di meno o niente del tutto, in modo che la situazione ha l’effetto di «umiliare chi non ha niente» (v.22). In ogni caso, proprio la mancanza di comunione ecclesiale fa sì che questo raduno «non è più un mangiare la cena del Signore» (v.20). Il cibo eucaristico è profanato non tanto per il mancato riconoscimento del corpo sacramentale, ma della presenza di Cristo nel “corpo” della comunità, specie nei fratelli indigenti.

Recuperiamo il gusto del celebrare “insieme”

Non manca il pane sui nostri altari, manca la fame, venuta meno anche nei praticanti forse per una sorta di “abitudine delle cose sacre”. È facile ridurre la Messa a una cerimonia, una funzione sacra di cui ciascuno può fruire per soddisfare i propri bisogni religiosi. Lo stretto legame tra l’Eucaristia e l’assemblea ci fa comprendere come la Messa non possa venir concepita e vissuta come un mezzo di grazia individuale e “cosificabile”. La liturgia non è la cornice collettiva di una somma di individui oranti. Così comincia a corrompersi il gusto buono del pane eucaristico.

Il primo esercizio sinodale è allora celebrare insieme, senza far battaglie per i riti, in uno stile fraterno, nell’impegno a trovare un ritmo comune per cui le voci si accordano, ci si ascolta gli uni gli altri, tutti in ascolto dello Spirito, valorizzando e articolando i diversi carismi e ministeri.

Per reagire alla perdita del gusto del celebrare, alla disaffezione alle celebrazioni, alla fatica dei giovani a partecipare, le comunità potrebbero attivare laboratori sinodali per la ricerca di uno stile celebrativo armonico e condiviso, alla scuola dei libri liturgici e in ascolto dell’assemblea dei fedeli.

Il Pane della fraternità sulla tavola della comunità

«Semina contadino – maturerà domani una parte del corpo di Gesù»

La forza di comunione contenuta nel pane eucaristico non è destinata a stare sull’altare, ma da lì passa alla tavola della comunità cristiana. La tavola dell’altare è il paradigma dei nostri tavoli ecclesiali, riunioni degli organismi di partecipazione e assemblee ecclesiali, dove la comunità prende forma e volto concreti e si costruiscono le decisioni per l’oggi della missione. In questo senso l’assemblea sinodale è un’espansione della assemblea eucaristica. Lo Spirito è il protagonista assoluto in entrambe le assemblee: ha unto e consacrato i battezzati e cresimati facendone un popolo regale e profetico, li ha trasformati in un solo corpo nutrendoli con il pane eucaristico; ora suscita in loro uno spirito di profezia e anima i discernimenti per guidarci a comprendere quali priorità missionarie, quali stili di presenza, di quali ministerialità la comunità ha bisogno oggi per essere missionaria sul territorio e rendere a tutti accessibile il vangelo del Regno. Senza lo Spirito rimaniamo incapsulati nel passato. Lo Spirito è l’energia che proietta in avanti, nella novità del Regno.

Anche la partecipazione ai tavoli di ascolto e discernimento comunitario attiva i nostri sensi spirituali. Anzitutto l’udito.

«Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo. Come l’amore di Dio incomincia con l’ascoltare la sua Parola, così l’inizio dell’amore per il fratello sta nell’imparare ad ascoltarlo. Chi non sa ascoltare il fratello ben presto non saprà neppure più ascoltare Dio; anche di fronte a Dio sarà sempre lui a parlare»[11].

Anche il tatto che consente il con-tatto fisico con la carne vera della comunità è coinvolto. Alcuni fratelli e sorelle non si sentono a loro agio nella comunità; patiscono una sorta di delusione perché vorrebbero assaporare e toccare una Chiesa idealmente perfetta: più pura, più testimoniale, più preparata, più inclusiva, più giovanile, più organizzata, più incisiva. Mentre i commensali alla tavola della comunità sono uomini e donne concreti non ideali, non diversi dai commensali dell’altare e dei banchetti di Gesù coi peccatori. Ma se questo ci scandalizza è solo per convertirci: «Forse Dio si compiace di utilizzare gli scarti, i tipi mancati, gli oggetti di rifiuto. Dopo tutto, il pane dell’ostia, per quanto ammuffito, diventa pur sempre il corpo del Cristo, dopo che il sacerdote lo ha consacrato»[12].

Alla luce di quanto detto, capiamo perché alcune dimensioni della struttura della Messa le ritroviamo nella struttura del sinodo. Così come l’assemblea eucaristica è penitenziale, anche attorno ai nostri tavoli comunitari ci sediamo senza presunzione o progetti preconfezionati, ma nella consapevolezza penitenziale di essere credenti non del tutto purificati dalle attrattive mondane, una Chiesa di peccatori e penitenti sempre sotto la croce, nel desiderio di essere una Chiesa dossologica che nelle sue decisioni missionarie punta solo alla glorificazione del nostro Dio trinitario e alla realizzazione del sogno missionario di far arrivare il Vangelo alle donne e agli uomini di questo tempo.

Fondamentale negli eventi ecclesiali, più delle decisioni e prima dei documenti, è la manifestazione del Signore Risorto che ha assicurato: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro» (Mt 18,20). È un evento di comunione del corpo con il Capo-Cristo che è un prolungamento e una funzione della stessa Eucaristia. Questa presenza di Gesù nello Spirito ha come effetto proprio di creare la sinfonia spirituale, l’accordo. Avviene per opera dello Spirito una sorta di “conversione” delle posizioni contrapposte o ostili, una armonizzazione delle posizioni differenti, un arricchimento delle decisioni costruite dal gruppo con l’apporto di ogni scheggia di verità emersa nel dialogo. La forza di queste decisioni è garantita dal fatto che sono nate da una “riunione santa” e da una “sinfonia operata dallo Spirito” tra i presenti e chiedono di essere recepite dall’intera comunità che dà il suo consenso, ratifica con il suo Amen e sottoscrive le decisioni come parole suggerite dallo Spirito, alla stessa maniera con cui pronuncia il suo Amen all’atto di comunicare al pane eucaristico.

Il Pane della compagnia e del servizio sulla tavola del mondo

«Semina, contadino – in nome del misero affamato»

Il pane dell’Eucaristia, per essere il Pane quello vero, deve finire sulle tavole del mondo. Il pane dell’amore diventa raffermo se resta fermo sulla tavola della Chiesa, conserva invece il suo gusto se diventa cibo offerto sulla tavola del mondo, per credenti e non credenti. I nostri cenacoli non sono un club eucaristico.

Isolare e incapsulare l’Eucaristia in un rito significa snaturarla. Nei vangeli l’Eucaristia nasce già come duplice memoria del Signore: nel rito del pane spezzato e nella lavanda dei piedi. L’altare sporge sul mondo. il congedo liturgico non dice: “La Messa è finita. Sedetevi e state in pace”, ma: “Andate in pace”. C’è una “liturgia dopo la Liturgia”, una “liturgia celebrata fuori dalle mura del tempio” che ci chiede di lasciare l’altare della Chiesa per onorare l’altare del povero, passare dal sacramento del pane al «sacramento del fratello» (G. Crisostomo).

Essere cibo per il mondo

L’Eucaristia ci insegna a stare nel mondo alla maniera del lievito che si mescola con cosa diversa da sé, la farina appunto, e da dentro, in maniera nascosta, agisce potentemente perché si espanda. La Chiesa non solo dona al mondo, anche riceve dal mondo – in una sorta di fermentazione reciproca – numerosi germi di bene e di verità che sono quasi un “Cristo sparpagliato” nel campo del mondo. La vita eucaristica diventa una vita di compagnia con il mondo (da cum-panis). Sediamo ai tavoli della città, delle amministrazioni, della politica, dell’economia e della cultura, del servizio alle fragilità. Nutriamo il mondo portando competenza, capacità di comunione e ispirazioni creative. Dal culto alla cultura: l’energia vitale del pane eucaristico travalica i confini definiti del rito e mentre produce frutti di santità, produce anche genialità e valori culturali.

Civiltà dell’amore che nasce dal pane spezzato

Ritorna spesso l’idea che in questa strettoia della storia c’è bisogno anzitutto di “visionari” gente capace di immaginazione creativa, di offrire sogno e prospettiva. L’immagine che noi cristiani possiamo proporre al mondo come la più feconda e promettente è: il pane spezzato. Il gesto di spezzare il pane è il distintivo di Gesù morto e risorto: «Lo riconobbero nello spezzare il pane». Questo gesto è la suprema rivelazione di Dio e dell’uomo. Il simbolo delle vecchie divinità mesopotamiche e greche era la spiga: colui che ha visto la spiga ha visto la fecondità, l’ordine dei chicchi, la simmetria dei chicchi. Cristo va oltre il frumento, pane in divenire, va oltre persino il pane stesso. Perché la verità ultima del pane è frantumarsi affinché la vita erompa e si moltiplichi nell’altro. Io credo che Cristo è sempre dietro questo gesto vivente e pieno d’amore sacrificale compiuto da qualsiasi uomo, credente o no. Sacrificio non anzitutto come sofferenza, sforzo, rinuncia, ma il modo di essere più maturo che esista. Rivelazione del mistero ultimo di ogni Essere, a partire da quello di Dio che è un “eterno donare” per arrivare al gesto semplice di chi spezza un po’ del suo tempo, delle sue risorse, del suo cuore per la fame dei fratelli. Spezzarsi è il gesto di ogni io umano che ha raggiunto l’ultimo gradino della sua ascesa umana. Ogni giorno nel cuore delle chiese sparse nel mondo si ripete il gesto di spezzare il pane in memoria di Lui. Milioni di credenti dicono Amen e accettano di essere memoria di Cristo nel mondo consumandosi per nutrire il Cristo presente nei fratelli. Tutti i ministri della consolazione, gli operatori delle Caritas parrocchiali, i ministri della comunione… sono ministri del gesto eucaristico di spezzare il pane della carità per nutrire il mondo.

Inquietudine eucaristica che denuncia l’ingiustizia e il cattivo sapore del suo pane

Papa Francesco spesso ripete che in questo mondo il regno della fame è crudele. Il mondo, purtroppo, sembra diviso tra chi non ha fame perché ha troppo cibo e chi muore di fame perché non ne ha. A causa di questa perversa situazione, molti sono esclusi dalla società in cui vivono e diventano ben più che sfruttati: diventano avanzi, scarti, rifiuti… Anche come comunità cristiana impegniamoci in una conversione alimentare, a operare dei mutamenti nei nostri comportamenti verso il cibo: combattiamo gli sprechi, gli eccessi, la “pornografia alimentare” che esibisce senza ritegno cibi raffinatissimi senza capire che si offende chi non si può permettere neppure la razione minima giornaliera. Fare comunione al pane spezzato non ci può lasciare tranquilli. Una sana inquietudine eucaristica porta i credenti che sono cittadini del mondo globale (casa comune) a denunciare disuguaglianze e ingiustizie, e promuovere piani politici ed economici per riaffermare che i beni della terra sono per tutti.

Il Pane celeste sulla tavola del Regno

L’Eucaristia antipasto del banchetto nuziale del Regno

Sullo sfondo del viaggio del Pane, all’orizzonte si intravede la meta: il banchetto delle nozze dell’Agnello (cf Ap 19,9). Maranathà! Tra le prime acclamazioni liturgiche della Chiesa c’è un grido espresso nel contesto della cena del Signore (1Cor 16,20-23) che indica presenza: Il Signore è arrivato, egli è presente (mentre siamo riuniti per la frazione del pane) e di attesa impaziente: Signore, vieni! (alla fine dei tempi, per stabilire il tuo regno).

Gesù lo aveva promesso: «Mangerete e berrete alla mia mensa nel mio regno» (Lc 22,30). Con la risurrezione di Gesù la linea di confine tra la terra e il cielo si è fatta sottilissima. E nella Messa avviene come una specie di ricognizione per sfondamento, una penetrazione anticipata nella Città santa, un antipasto del banchetto del Regno quando lo stesso Figlio dell’Uomo si cingerà i fianchi, ci farà sedere a mensa e passerà a servirci i cibi succulenti della beatitudine, della luce e della pace. Immagine stupenda del Paradiso come condizione di pieno appagamento della vita dei sensi trasfigurati a immagine del corpo glorioso del Risorto.

L’Eucaristia farmaco di immortalità

Nel discorso sul pane di Giovanni, Gesù si autodesigna: “Io sono il pane disceso dal cielo” (v. 41); e promette: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda” (vv. 54-55). Eppure nel “frattempo”, anche noi credenti, sperimentiamo che il gusto della vita è contraddetto dal sapore amaro della morte.

La nostra esperienza umana è intrisa di paure e la paura-madre è il timore della morte che avvelena speranze, entusiasmi, progetti, creatività, inquina la convivenza con conflitti e competizioni. Finché l’uomo affonda le sue radici nella terra avverte il disgusto di una vita biologica in cui la sentenza della condanna a morire è pronunciata sin dal suo concepimento. I cristiani, figli della risurrezione, portano in questo mondo che rischia la “nuda sopravvivenza”, il fermento eucaristico del Regno che è lievito della grande speranza nel ritorno del Signore alla fine dei tempi, ma anche delle piccole speranze per il giorno di oggi e di domani. Nutrendosi del cibo di vita eterna, avviene per i cristiani come una sorta di capovolgimento per cui le loro radici sono in cielo, affondano nell’avvenire che ha come garanzia e caparra la risurrezione di Cristo.

Di tavola in tavola per ritrovare il gusto buono del Pane

Il viaggio del Pane è compiuto, o quanto meno abbiamo intravisto la tabella di marcia. Abbiamo compiuto una serie di passaggi di tavola in tavola. Il passaggio necessario richiede sempre un accogliere l’invito e un camminare per convenire. Non si può scegliere di sedere solo a una di queste mense. La perdita del gusto del pane è forse legata al frequentare solo alcune di queste tavole. Il pane conserva la sua capacità di nutrire la vita solo se è assaporato su tutte le mense. Non ci può essere bulimia nel nutrirci del pane eucaristico e anoressia nel condividere il pane della fraternità; viceversa: rischia di diventare stantio il pane della solidarietà che non lievita in fraternità grazie all’Eucaristia.

Nella preghiera consegnata da Gesù chiediamo il nostro pane quotidiano. L’aggettivo “quotidiano” in greco è epioúsion. I padri della Chiesa traducevano epioúsion con super-sostanziale, che ha dentro la sostanza vitale che veramente ci dà di che vivere: pane materiale e nutrimento umano (parole, affetti, sogni, verità, bellezza) e il pane “estremamente essenziale” con una chiara allusione al pane sacramentale.

Il pane è, dunque, un simbolo che ha molti strati. Gesù prende sul serio i bisogni materiali della folla affamata e moltiplica il pane; poi la conduce a un livello ulteriore del pane, quello in cui il pane diventa più vero: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame» (Gv 6,35).

Il viaggio del pane ci ha condotti dal mondo all’altare e dall’altare al mondo. Occorre compiere il lento esercizio spirituale e umanissimo di sedere alle varie tavole e apprendere come stare a mensa, cibandosi della sovrabbondante mensa della creazione, condividendo la tavola domestica e assumendo una cultura del cibo e uno stile di condivisione. Le prime due tavole della creazione e della casa sono preparatorie all’altare che è la tavola centrale.

Imbandire l’altare della chiesa è per i cristiani il passaggio rituale – gratuito e più che necessario – per ricevere il cibo del Signore e poi imbandire le tavole della comunità, e non solo, anche quelle della cittadinanza. È tornando alla tavola dell’altare che apprendiamo l’ecologia integrale, l’arte di vivere abitando la piccola chiesa domestica, armonizzando i tempi di famiglia con una sana cultura del lavoro.

Perdiamo il buon sapore del pane eucaristico quando separiamo tra loro le tavole che sono invece dimensioni intrecciate del mistero. Il magistero silenzioso dell’Eucaristia ci ripropone ad ogni Messa la sintesi della vita cristiana: nella briciola del pane c’è tutto! L’Eucaristia è davvero la «coppa della Sintesi»[13]. I nostri cammini sinodali, le nostre azioni profetiche, il nostro stile ministeriale, se misurati sull’Eucaristia riprendono gusto. Ritorniamo a sedere al nostro posto alla mensa della Chiesa, non diminuiamo di un membro l’assemblea. Ci aiuta a riattivare la fame del Pane di Cristo ricordare che siamo ospiti attesi e sono rivolte a noi quelle parole di fuoco: «Con desiderio ho desiderato (desiderio desideravi) mangiare questa Pasqua con voi» (Lc 22,15).

Ci attendono i tavoli della città. Cristiani seduti per dare il contributo del sogno e pronti ad alzarsi per imbandire progetti generativi. Sacerdoti che come padri e fratelli sostengono l’azione dei cristiani nel tempo e laici che portano la veste battesimale nei cantieri della cittadinanza e la tuta di lavoro attorno all’altare.

Risvegliare i sensi ai sapori del pane, se è autentico, non può che essere anche un risveglio al sapore salato del pane di lacrime dei tanti Lazzaro dimenticati alle porte delle nostre chiusure. Lacrime che sono l’inondazione più amara che, anche in quest’ora, gonfia i fiumi del dolore di interi popoli affamati di pace e giustizia.

Il Congresso Eucaristico di Matera è stato pensato come la sosta contemplativa all’interno del cammino sinodale della chiesa italiana. Anche l’inno del Congresso ci fa passare di tavola in tavola, contemplando il Signore che «ci raduna intorno alla mensa, ci dona di tornare al gusto del pane: frutto della terra, segno del suo amore, che diffonde il profumo del lavoro dell’uomo. Dal fuoco dello Spirito è reso nutrimento che di molti fa uno, Vita nuova per il mondo».

Semina contadino! Semina Chiesa italiana! E tu «Signore, dacci sempre questo pane» (Gv 6,34).

[1] D. VARUJAN (1884-1915), Il Canto del Pane, in Mari di grano, Paoline 1995, 103-104.

[2] P. MAZZOLARI (1890-1959), Il segno dei chiodi, Milano 1954, 73-78; ID., La mia messa domenicale, Adesso, Cremona 1975.

[3] PIETRO CRISOLOGO (V sec.), Sermone 30 (PL 52, coll. 285-286).

[4] PAPA FRANCESCO, Angelus nella solennità del Corpus Domini, 6 giugno 2021.

[5] EFREM IL SIRO (IV sec.), Inni sulla fede, XIV,1-5. 5

[6] Cf GIROLAMO (IV sec.), In Psalmum 147: CCL 78, 337-338.

[7] Cf N. CABASILAS (XIV sec.), Spiegazione della divina liturgia, 3,1-5 e 4,1-2.

[8] CIRILLO DI GERUSALEMME (IV sec.), Catechesi 22, 3: PG 33, 1099.

[9] AGOSTINO (IV-V sec.), Discorso 272, in Opere di sant’Agostino. Discorsi, XXXII/2, Città Nuova, Roma, 1984, 1043-1045.

[10] Cf P. FLORENSKIJ (1882-1937), Colonna e fondamento della verità, 476-487.

[11] D. BONHOEFFER (1906-1945), La vita comune, Brescia 1969, 147-149.

[12] S. WEIL (1909-1943), Attesa di Dio, 4. Autobiografia spirituale.

[13] IRENEO DI LIONE (II sec.), Adversus Haereses, III, 16.

Incontro Meditazione con S.E. Mons. Gianmarco Busca, Vescovo di Mantova
Meditazione di Giuseppina De Simone – Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale

Il pane di tutti e di ciascuno
«Il paese dove siamo nati e dove siamo cresciuti ci ha donato il sapore del suo pane. Quando il
destino ci spinge o ci esilia in un’altra terra, ce lo portiamo con noi, in noi. Chi perde questo sapore,
perde una parte del proprio paese e di se stesso. Ognuno porta in sé la propria storia del pane
spesso come un segreto» Così scrive Pedrag Matvejevic nel suo libro Pane nostro frutto di una
ricerca sulla storia del pane condotta per venti anni seguendo la traccia di un ricordo della propria
storia familiare intrecciata a quella della terra ucraina durante la Seconda guerra mondiale.

La storia del pane abbraccia l’intera storia dell’umanità. Il pane è più antico della scrittura e del libro
e niente forse più del pane racconta l’umanità. Il cammino che ha condotto dal chicco crudo a quello
cotto, dalla farina al pane è stato lungo. Ma «l’uomo che preparò il pane era diverso dai suoi
antenati. Si era affacciato alle soglie della storia» (13). «L’origine del pane accompagna la
trasformazione dei nomadi in stanziali, del cacciatore in pastore, di entrambi nell’agricoltore» (12).
E con l’agricoltura nascono gli insediamenti umani, il paesaggio si trasforma, il tempo viene
suddiviso in stagioni mesi settimane. Quella del pane è una storia che attraversa terre e popoli. Non
sappiamo «dove e quando germogliò la prima spiga di grano» (11). Dal Corno d’Africa dagli altopiani
dell’Etiopia e dell’Eritrea, dall’Egitto e dalle pianure della “mezzaluna fertile”, dall’Africa e
dall’Oriente lungo la storia i semi sono stati trasportati e trapiantati da una terra all’altra. «I cereali
trasportati dall’Est e dal Sud hanno contribuito all’incremento del numero degli abitanti dell’Ovest
e del Nord» (175). E insieme ai semi viaggiavano «l’esperienza e il bisogno» (41). Le conoscenze sul
grano e sul pane sono state tramandate di generazione in generazione. E nel contatto tra i popoli,
negli scambi e nelle dominazioni «ognuno imparava da qualcun altro. Ma non in tutte le circostanze
sappiamo chi è “l’altro” e per quali ragioni potrebbe esserlo» (64). Il pane è «prodotto della natura
e della cultura» (17). La qualità del pane e del grano dipende dalla specie del seme e dalla fertilità
del terreno nel quale germoglia e cresce (cf 23) dalla qualità dell’acqua usata per impastarlo, dal
sale, dal lievito, dal tipo di legno messo a bruciare nel forno o nel focolare (cf 26) ma anche «il lavoro
e la fatica del corpo diventano pane» (28).

Non c’è un unico pane. Le modalità di lavorazione, le forme, il sapore cambiano da paese a paese e
nascono da storie diverse legate alla specificità dei territori e alla vita che in essi si è resa possibile,
alle vicende che l’hanno segnata. Recano in sé l’ingegno la fantasia, la fatica dei tempi di siccità, di
carestia o di guerra, l’allegria dei giorni di festa, l’intimità della vita quotidiana. Ci sono pani diversi
così come diversi sono i nomi che designano il pane e i pani nelle differenti culture. Ma ovunque, e
qualunque sia la forma e la denominazione del pane, le parole usate rimandano al senso della
protezione e della custodia, così come a quello del dono e dell’ospitalità. Il pane nutre e preserva
ed è pane condiviso e da condividere. Nelle lingue indoeuropee e nelle lingue germaniche e nordiche la radice è la stessa della parola padre. «I derivati latini e romanzi di pane (m) hanno
prodotto le parole composte che stanno a indicare la relazione tra coloro che dividono il pane
comune» (182). Il pane unisce e distingue. Ci accomuna pur nella più grande diversità.
Qualunque sia il suo sapore il pane ha il gusto di quel che è comune, il sapore della condivisione più
elementare ma anche più intima, «non è figlio della solitudine» (204), nasce dal lavoro fatto insieme
ed è così forte il legame con gli esseri umani da motivare la corrispondenza, più volte messa a tema,
tra il pane e il corpo. «Quando il pane è vero il corpo è sano» (20). Tutti i cinque sensi, l’olfatto, il
tatto, la vista e perfino l’udito, ognuno a modo loro sono collegati al pane e insieme ne accolgono
il dono. «In alcuni paesi islamici – scrive Matvejevic – si infila il pollice nella pasta prima di metterlo
sul fuoco o nel forno, per confermare che a farlo è stata la mano dell’uomo. “Il cuore del pane” – la
mollica dell’interno estremo – veniva posto sulle ferite da taglio per fermare il sangue e
rimarginarlo. Il corpo ferito lo recepiva, quasi sottomettendosi» (22).

Il pane unisce, crea legami, ma può anche dividere, essere usato per scavare solchi profondi fra gli
esseri umani: quando è sottratto o alterato; quando diventa strumento di potere o di ricatto, di
dominio economico e culturale.

«Nei periodi di estrema fame e durante le peggiori epidemie si macinava e si impastava nelle varie
parti del mondo tutto ciò che poteva essere usato come surrogato del grano» (34) per necessità,
ma anche per speculazione, e si diffondevano così ulteriori terribili malattie che decimavano la
popolazione. Ancora oggi succede là dove la carestia e la guerra disegnano scenari di miseria e di
estrema precarietà. Sulla disponibilità di grano e di pane da sempre si gioca la forza o la debolezza
del potere. Affamare un altro popolo vuol dire creare le condizioni per assoggettarlo. Ma anche
controllare i flussi e gli approvvigionamenti dei cereali determina una situazione di dipendenza e di
controllo della vita di paesi e di popoli (come stiamo purtroppo vedendo nella guerra che si
combatte in Ucraina).

Il pane che manca racconta della drammaticità dei conflitti, anche di quelli dimenticati o nascosti,
e della devastazione che producono. Attesta la pervasività dei sistemi di potere: di quelli visibili e di
quelli invisibili, che agiscono sulle sorti dei popoli e gestiscono gli equilibri del mondo.

La storia del pane di ieri e di oggi racconta gli assoggettamenti e le dipendenze, ma anche i percorsi
di liberazione: come il pane azzimo del popolo di Israele o come il pane condiviso con i fuggiaschi e
i prigionieri durante i conflitti di ogni tempo, il pane della pietà e della interiore rivolta contro la
logica della violenza e della negazione dell’altro, il pane distribuito ai poveri perché custodisca la
loro dignità, e il pane ritrovato nel recupero di colture e di tradizioni antiche oltre la massificazione
omologante di una certa globalizzazione.

Il pane conserva in sé la memoria: di quello che è stato, della parte migliore del passato o delle sue
ferite. È viatico per il tempo che viene. Il gusto del pane attraversa il tempo e si apre sull’eternità.
«Resti di grano e pane si sono conservati nei sepolcri, accanto alle urne e ai sarcofagi, nelle piramidi
– là dove ci si congedava dalla vita terrena nella speranza di una vita eterna» (16-17). «Il pane è
presente nelle fede e nella preghiera». È il pane dei pellegrini, il pane dell’offerta, il pane delle feste
religiose (vivaio di una grande varietà di tipi di pane), il pane dell’elemosina, della sobrietà, della
condivisione e della giustizia. «Spesso il percorso del pane e quello della religione si sono
sovrapposti o hanno camminato paralleli» (83).

Nel gesto del Signore Gesù. Il pane che ci fa Chiesa
Il racconto del pane, così profondamente intrecciato alla storia degli esseri umani, questo legame
così intimo e antico con l’umano in quanto tale e in tutte le sue sfaccettature, nel gesto del Signore
Gesù è come raccolto e trasfigurato, assunto nella sua Pasqua, sorgente inesauribile di una pienezza
di vita e di umanità. Nella Pasqua del Signore Gesù il pane diventa sacramento di salvezza. Non
cambia il colore, il sapore, non vengono cancellate le ferite della storia e neppure la diversità dei
percorsi, il pane rimane pane ma è la vita di Dio per noi che ci è data attraverso quel pane ed è la
nostra vita in Dio che quel pane rende possibile – nelle ferite e nei legami – principio e viatico di una
pienezza di umanità. Se il pane nutre e custodisce, il pane spezzato del corpo di Cristo ci stabilisce
e ci custodisce nella relazione che ci fa umani, nella relazione a Dio da cui vengono e in cui sono
rese possibili tutte le nostre relazioni, quella relazione filiale che è la sostanza più profonda del
Cristo, e che in Lui, nella sua carne, diventa carne della nostra carne: “figli nel Figlio”. Quel pane
nutre il nostro essere in relazione, ci fa relazione. Un pane spezzato, condiviso, che ci fa pane: un
corpo solo, essendo diversi.

Dal gesto del Signore Gesù nasce la Chiesa che è in Cristo sacramento di salvezza, sacramento di
comunione in Colui che è una sola cosa con il Padre nello Spirito Santo.

Se la liturgia è lo spazio privilegiato della comprensione della fede, se essa è mistagogia,
introduzione al mistero della salvezza intuito percepito e narrato nelle preghiere e nei riti, è nella
liturgia eucaristica che possiamo cogliere in maniera nitida l’intimo nesso tra il pane eucaristico e il
nostro essere Chiesa.

La preghiera eucaristica se considerata nella sua unità e nella sua interna articolazione, come ci
invita a fare nei suoi magistrali scritti padre Cesare Giraudo, attesta chiaramente questo nesso di
interazione dinamica, ci conduce quasi per mano a scoprirlo. Ma bisogna ben ascoltarla, avvertirne
interiormente il movimento di senso. Nella struttura della preghiera eucaristica alla lode resa a Dio,
il rendere a lui grazie (nel Prefazio), segue la supplica, l’invocazione dello Spirito in una duplice
epiclesi: sui doni, il pane e il vino, perché vengano trasformati nel corpo e nel sangue di Cristo; e su
di noi, perché comunicando al corpo e al sangue di Cristo siamo trasformati in un solo corpo.
«Santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito, perché diventino per noi il Corpo e il Sangue
del Signore nostro Gesù Cristo» e «Ti preghiamo umilmente: per la comunione al Corpo e al Sangue
di Cristo, lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo». (Così recita ad esempio la II preghiera
eucaristica della liturgia latina).

Pur non trovandosi immediatamente l’una dopo l’altra, «le due richieste costituiscono di fatto
un’unica e indivisibile supplica» (Giraudo) . E l’accento cade su quel “per noi” e sulla seconda
invocazione. L’Eucaristia ci è data perché diventiamo in Cristo un solo corpo, un solo corpo con Lui
e per ciò stesso un solo corpo tra di noi.

La transustanziazione del pane e del vino è per la nostra transustanziazione nel corpo ecclesiale
grazie alla comunione al corpo sacramentale. «Da sostanza di dispersione dovuta alla nostra
fragilità e ai nostri egoismi, – scrive Giraudo -noi diventiamo sostanza di raduno escatologico, ossia
membra armonicamente compaginate con Cristo, “il capo di quel corpo che è la Chiesa” (Col 1,18)».
Una trasformazione che è “escatologica” perché “già” avvenuta e “non ancora” perfettamente
compiuta; un processo di crescita ecclesiale che la celebrazione dell’eucaristia rende sempre di
nuovo possibile. Diventiamo corpo di Cristo, lasciando che sia quel pane a nutrirci, accogliendolo in
noi, custodendone la storia e il mistero in una tensione che è insieme verticale e orizzontale, o
meglio orizzontale perché verticale: corpo di Cristo, uniti a lui, e con lui al Padre nello Spirito Santo,
e, per questo, Chiesa, una sola cosa tra di noi.

Le intercessioni della preghiera eucaristica allargano questa domanda di trasformazione in un solo
corpo a tutte le porzioni di Chiesa che nel momento della celebrazione non sono fisicamente
presenti. E la dossologia finale attesta in un crescendo la direzione di senso in cui questo divenire
si pone, e ci pone, abbracciando l’intera umanità e il cosmo tutto: l’avvento del Regno in cui
domandiamo a Dio di introdurci per glorificarlo senza fine.

Il termine ultimo e il fine proprio della celebrazione eucaristica è dunque il “Cristo ecclesiale” vale
a dire l’edificazione della Chiesa. «Celebriamo l’eucaristia per ottenere dal Padre la trasformazione
in un solo corpo, ossia nel corpo ecclesiale, escatologico, mistico» (Giraudo). La presenza reale non
ci è stata data solo perché possiamo adorare Cristo sotto le specie eucaristiche; ma perché
nutrendoci di quel pane possiamo diventare Chiesa sempre di più e sempre di nuovo: porzione di
una nuova umanità, segno sacramentale di quei cieli nuovi e terra nuova che tutti attendiamo,
promessi dal Signore Gesù e resi possibili dalla sua Pasqua, popolo di Dio in cammino che vive
dell’amore di Dio, da quest’amore è nutrito e continuamente rigenerato. Perché questo amore,
mistero di comunione, possa trasformare il tempo e il cosmo e rendere l’umanità tutta una cosa
sola.

«Nella consegna del gesto sacramentale» che custodisce il darsi della Vita di Dio a noi,
«l’irrevocabile prossimità di Dio per l’intera storia, si stabilisce – come scrive Pierangelo Sequeri – la
matrice generativa dell’intera realtà-di-chiesa che ne deve seguire e conseguire». La ripetizione di
quel gesto «santifica la Chiesa, rendendola dovunque e sempre di nuovo disponibile per la
testimonianza» del Vangelo. La liturgia eucaristica «mostra a tutti l’altezza delle promesse
consegnate dal Signore per il tempo della sequela»; «rende trasparente l’autentico principio e la
vera portata della missione dei Discepoli» della missione della Chiesa. Non abbiamo qui una
comunità che celebra se stessa o che celebra per se stessa. L’autoreferenzialità è spezzata in radice,
così come ogni chiusura che salvaguardi dal mescolarsi alla storia del mondo. «Il Signore – scrive
ancora Sequeri – non è sequestrato dai pochi, rimane a disposizione dei molti – a cominciare dai
poveri, dagli abbandonati, dai perduti – per i quali il Corpo del Verbo [il pane della Vita] è dato. Non
importa quanto lontani siano».

Un cammino sinodale nel segno del Pane
Il cammino sinodale che stiamo vivendo come Chiese che sono in Italia e come Chiesa tutta, spinge
a ritrovare tutto questo, a ritornare al gusto del pane: ritrovare il gusto del pane che salva, del pane
condiviso e da condividere, del pane spezzato perché tutti abbiano la Vita e l’abbiano in pienezza.

L’interrogativo fondamentale che guida la consultazione di popolo attivata – e che è già sinodo e
non semplicemente una sua fase preparatoria- centrando l’attenzione sulla sinodalità, sulla forma
della Chiesa che rende credibile l’annuncio del Vangelo, conduce a ritrovare quel che ci fa Chiesa, il
principio e fondamento di quella forma comunionale che è propria della Chiesa e che chiede di
essere sempre di nuovo ri-formata, di essere resa sempre più trasparente e più solida. La forma
Ecclesiae ha bisogno di essere compresa sempre di nuovo e ri-modulata nel tempo, dentro la storia
dell’umanità che la Chiesa condivide essendo ad essa intrecciata, accogliendo le sollecitazioni che
da questa storia vengono, non in una logica di passivo adattamento ma perché da sempre il
cammino della Chiesa non è separabile da essa e perché da sempre la verità del Vangelo si lascia
comprendere nella particolarità dei tempi e dei luoghi in cui risuona nella logica dell’Incarnazione.
La verità che ci è affidata è viva e in essa cresciamo camminando, a volte anche inciampando e
cadendo per poi rialzarci, con l’umanità tutta di cui condividiamo il desiderio e la ricerca, ma anche
la sofferenza e gli erramenti.

Per questo non bisogna temere di ascoltare la storia, ossia la vita delle persone, dei popoli, le
culture. L’ascolto della Parola del Signore, il riconoscimento della sua presenza e della sua azione
salvifica, passa anche attraverso la capacità di discernere i segni dei tempi, quel discernimento che
la Chiesa è chiamata a vivere nel suo insieme e di cui come popolo di Dio stiamo facendo esperienza
nel cammino sinodale. Ascoltare che cosa lo Spirito dice alle Chiese, ascoltando le voci di tutti.
In questo ascolto a tutto campo, nell’assunzione di quello stile di dialogo che è l’indole propria della
Chiesa, il cuore pulsante, il centro irradiante, fonte e culmine a cui sempre ritornare è la
celebrazione dell’Eucaristia e il mistero che in essa si rinnova rendendosi visibile nel segno del pane.
Non si tratta allora tanto di cercare una corrispondenza puntuale tra la celebrazione eucaristica in
quanto azione di popolo e l’azione l’esperienza sinodale, ma di ricordare che nessuna riforma
ecclesiale è possibile se ci si separa dall’essenzialità della celebrazione eucaristica e dalla verità
dell’evento che in essa accade.

Tornare ad essere pane è quello che ci è chiesto. Nel pane della Vita che ci fa pane è la radice e il
senso di quello che siamo come Chiesa ed è l’ampiezza della missione che alla Chiesa è affidata fino
agli estremi confini.

È il mistero di una comunione che è pienezza di relazione, di una unità che non è uniformità ma
armonia delle differenze, come papa Francesco non si stanca di ripetere, perché ciascuno è unito a
Cristo Gesù e all’unico corpo ecclesiale, nella unicità di quel che è e che vive e nella unicità del dono
dello Spirito per la vita della comunità. E guai se si perdesse il sapore di questa unicità, proprio come
nel pane fatto bene, nel buon pane, si avverte la traccia degli elementi che lo compongono e che in
esso si fondono in una unità di fragranza senza confondersi. La diversità non è l’opposto dell’unità
ma la sua condizione più autentica.

Così nella Chiesa la fioritura di carismi e ministeri non ostacola l’unità ma contribuisce a realizzarla
ed è ad essa orientata se suscitata dall’azione dello Spirito, se impariamo ad avvertirci membra gli
uni degli altri, a comprendere le diverse vocazioni in rapporto le une alle altre e la vocazione di
ciascuno nella relazione alla comunità.

Non si tratta allora di semplificare, compattare, razionalizzare, ma di articolare, arricchire, far
fiorire, nella docilità all’azione dello Spirito.

Il cammino sinodale spinge a riscoprire l’intimo nesso tra unicità e unità, particolare e universale
nella vita e nella missione della Chiesa, quel nesso che è nel mistero della salvezza realizzata in
Cristo Gesù e in cui la celebrazione eucaristica ci immerge sempre di nuovo.

«Questo è, in definitiva il tesoro nel campo che la comunità possiede. – scrive Pierangelo Sequeri –
Il seme che deve fruttificare, all’inizio, è realmente il corpo dato del Signore, nella nuova famiglia
umana – la adelphotes che si raccoglie da ogni tribù lingua e nazione e tiene insieme i diversi – che
ascolta la Parola, si nutre del pane disceso dal cielo, si lascia toccare, guarire, benedire dal Signore
Gesù. Una comunità in cui il padrone e lo schiavo, il giudeo e il greco, l’uomo e la donna, stanno
insieme, con la stessa dignità dei figli dell’Unico Padre, non si era mai vista. Il primo scandalo
evangelico – fecondo di una storia completamente nuova fra gli umani – fu proprio questo stare
insieme». E questo stare insieme nella diversità, avendo la stessa dignità, una cosa sola essendo
diversi, «deve ritornare ad irradiare la sua luce e la sua forza, nella città secolare, multi-religiosa».
Essere segno di fraternità nella vita del mondo; annuncio di una fraternità possibile nell’incontro
tra popoli culture religioni.

In un mondo in cui manca il pane, in cui ad essere affamati sono prima di tutto e paradossalmente
i paesi dove la storia del pane è iniziata, in un mondo stravolto dai cambiamenti climatici,
attraversato da flussi migratori che la carestia e le guerre alimentano sempre di più, e dove ci si
continua ad arricchire a dismisura e a consumare le risorse comuni a vantaggio di pochi, la Chiesa
non si stanca di chiedere che venga ascoltato il grido dei poveri, degli scartati, e il grido della terra.
E sa di dover essere essa stessa lo spazio in cui questo grido viene accolto nell’attivazione di
esperienze di solidarietà ma anche di percorsi di ricerca per una nuova economia perché la storia
del pane si rinnovi e il pane non manchi sulla tavola di nessuno, sia il pane di tutti e di ciascuno.

In un mondo che è lacerato da divisioni e di guerre la Chiesa non si stanca di essere pane che
riconcilia e unisce, costruendo ponti tessendo relazioni tra i popoli le culture le religioni. Non si
stanca di chiedere e di annunciare la pace possibile, sperando oltre ogni speranza e lavorando
perché nel riconoscimento reciproco siano poste le condizioni di un’autentica pace.

Questa è la testimonianza tenace e indefettibile di papa Francesco ed è il cammino della Chiesa
chiamata ad essere nel suo Signore pane spezzato per la vita del mondo.

È il cammino di tutti noi credenti in Cristo Gesù. Un cammino nel segno del pane.
Matera, 24 settembre 2022

Il gusto buono del nostro Pane. Chiesa, sinodalità, Eucaristia – Prof.ssa Giuseppina De Simone

SPECIALE ROVETO ARDENTE DA MATERA in occasione del 27° Congresso Eucaristico Nazionale

Congresso Eucaristico nazionale, la cena di Coldiretti Basilicata

Mons. Gianmarco Busca

Prof.ssa Giuseppina De Simone

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Chiesa Sant’Agnese

Chiesa Sant’Agnese

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