Perché deve preoccupare la crisi dell’informazione locale

In un articolo sul quotidiano Il Foglio interviene Marco Bardazzi sulla crisi dei giornali locali.

L’informazione locale ha un futuro? È una domanda che pone Marco Bardazzi su Il Foglio del 9 dicembre con un articolo intitolato significativamente “Non c’è da essere troppo allegri se in America spariscono i giornali locali”.

È facile comprendere come la desertificazione dell’informazione locale americana è un brutto campanello d’allarme sia perché ciò che avviene in America rappresenta inevitabilmente il nostro futuro, sia perché negli USA l’informazione è sempre stata intesa come informazione innanzitutto locale. Anche i più grandi quotidiani, fa notare Bardazzi, come il New York Times e il Washington Post hanno infatti un fortissimo legame con il territorio – del resto, lo si capisce dallo stesso nome delle testate.

Sono quasi tremila i giornali scomparsi in America dal 2005. Cioè un terzo del totale delle testate giornalistiche. E ciò che è più grave è che con questo si sono persi i due terzi dei giornalisti, un esercito di 43mila professionisti. Persi anche i due terzi della raccolta pubblicitaria, soltanto in minima parte transitata sul digitale, dove in realtà chi ci guadagna veramente è Google.

«Nel Ventesimo secolo» scrive Bardazzi a proposito dell’America, «si era affermato un ecosistema che prevedeva di solito la presenza in ogni città, piccola o grande, di almeno un paio di giornali (molto spesso settimanali) e di una o due emittenti tv, in competizione tra loro e affiliate ai grandi network nazionali (Abc, Cbs, Nbc)».

Oggi purtroppo soltanto la metà delle contee degli USA ha più di un giornale e circa in duecento contee non ce ne sono affatto. Sarebbe interessante domandarsi, si chiede inoltre il giornalista sul Foglio, quanto la carenza di informazione incida sull’orientamento di voto. Il timore, si potrebbe rispondere, è che oltre che sull’orientamento di voto, la desertificazione dell’informazione giornalistica incida pesantemente anche sulla tenuta della democrazia.

Tutto questo, possiamo aggiungere, deve preoccupare anche testate giornalistiche della nostra Penisola e quelle cattoliche in particolare, come è questo nostro giornale. Perché i giornali cattolici sono strettamente legati alle realtà territoriali. Sia per la loro vocazione, essendo espressione di piccole comunità, sia per la tradizionale articolazione della Chiesa che è, come sappiamo, in massima parte parrocchiale.

Si dice che i giornali non si comprano più perché la gente preferisce informarsi da internet e dai social. Indubbiamente questi sono potenti strumenti per seguire gli avvenimenti, spesso addirittura in tempo reale. Ma bisogna dire che non basta seguire gli avvenimenti per essere informati. Il Wall Street Journal ha intervistato 250 studenti che seguivano quanto oggi succede a Gaza. Meno di un quarto di questi sapevano chi fosse Yasser Arafat e un buon dieci per cento riteneva fosse il primo ministro israeliano. È un esempio di come si seguono i fatti senza essere informati sui fatti.

Bisogna riconoscere certamente che oggi non sempre la stampa è all’altezza del proprio compito, talvolta si usa l’informazione per alimentare pregiudizi. Non per questo si deve pensare che è meglio nessuna informazione di quello che scrivono alcuni giornali.

Non si tratta soltanto di fare una battaglia per difendere dei posti di lavoro di giornalisti, grafici, addetti alla distribuzione e alla vendita, una battaglia anche questa doverosa. Si tratta soprattutto di non mollare il rapporto col proprio territorio che in altre parole vuol dire non mollare il rapporto con quella realtà popolare, sia essa la comunità ecclesiale o la società laica, che alimenta la partecipazione democratica dei cittadini.

Tante volte si parla del valore del vicinato, della nostalgia dei rapporti con i vicini di casa che c’erano un tempo. A pensarci bene, l’informazione locale serve proprio a questo, a interessarci di quello che succede nel vicinato.

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Paolo Tritto

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