Svegliarsi in un mondo di carta assorbente

Come definire il ‘possibile ontologico’, le cui tracce solitamente restano sopite nel pensiero: inespresse in forma verbale perché difficili da coscientizzare? E con quali percorsi mentali è dato spingersi verso l’infinito della conoscenza?

‘Un giorno Rob si svegliò nel mondo della carta assorbente’… È questo l’incipit del racconto INCONTRANDO IL POSSIBILE RE che Giuseppe Limone ha voluto inviarmi nel duplice formato sia della videoscrittura che in una suggestiva versione di libro parlato. D’istinto ho preferito la modalità dell’ascolto perché l’impatto della viva voce della lettrice mi recasse in forma più emotiva le incalzanti domande, le ardite metafore e i vertiginosi interrogativi di cui è intessuto questo stupefacente testo. Immergersi in esso rischia di produrre uno straniamento, una dimensione percettiva e cognitiva policentrica in cui il pensiero può ad ogni passo smarrire il filo del discorso disponendosi da punti di vista sempre cangianti, affannandosi a rincorrere il senso di pensieri presentati come eventi che travolgono il lettore in un affascinante gioco metafisico.

Come definire infatti il ‘possibile ontologico’, le cui tracce solitamente restano sopite nel pensiero: inespresse in forma verbale perché difficili da coscientizzare? E con quali percorsi mentali è dato spingersi verso l’infinito della conoscenza? Si può solo alludervi inventando metafore o sfiorarlo per un attimo prima che perda consistenza e ci sfugga un’altra volta. L’autore risolve questi interrogativi da par suo, travolgendo il lettore con la creatività torrenziale di cui è intrisa la sua scrittura, che non dà scampo né tregua: fantasmi incombenti seppure impalpabili le sue domande, che si parano dinanzi al lettore in tutta la loro evidenza logica, ontologica ed esistenziale.

Come la più famosa Alice in Wonderland, il giovane Rob viene improvvisamente catapultato in un mondo in cui gli spazi vuoti contano più di quelli pieni: un ambiente mentale in cui la carta assorbente si rivela pari ad uno specchio, che riproduce tracce e fattezze rovesciate certo per scoprirne l’intrinseca ambiguità. E qui torna ancora in mente Alice through the mirror, come un’implicita, forse anche involontaria citazione che presto si traduce nell’emozione – oggi dimenticata per la bulimia delle foto digitali – dell’attesa trepidante che tempo addietro capitava di provare prima che comparissero le forme chiaroscure delle foto in bianco e nero, stampate in casa di notte alla luce di una lampada rossa, perché non si danneggiasse irreparabilmente il delicato processo innestato dagli acidi sulla carta sensibile immersa nella vaschetta. E ben presto l’attesa si tramutava in sorpresa e questa a sua volta in gioia, se i contorni risultavano ben delineati e il contrasto si evidenziava con nitidezza…

Ed ecco che finalmente il Vecchio dalla tunica di raso e dai fluenti capelli dà il benvenuto a Rob nel Paese dei mille Re. È il mondo dell’intero possibile dove tutto accade, anche solo per un istante. L’inquietante e radicale interrogativo a questo punto è: ‘Perché mai ciò che è stato dovrebbe avere più dignità di quello che non fu?’ Anche perché forse solo apparentemente non fu…

Rob guardava il mare rosso pullulare, incinto di un segreto. E si domandava se non stesse per caso sognando di non sognare. «Ma allora, chiese, qui niente accade?» «Sì, accade, ma in un modo diverso. La realtà ha mille facce, di cui voi vedete una sola, credendola solo per questo ridotta ad essa sola. Procedete guardinghi come cavalli da tiro che guardano avanti, circoscritti nel brevissimo giro dei paraocchi, e segretamente credete che quello sia l’unico mondo e che quello che eventualmente avvenga di lato non abbia realtà.» 

Questa esortazione del Vecchio dalla tunica di raso evoca un analogo invito che il professor Keating rivolgeva ai suoi alunni nel film L’attimo fuggente, quando – in piedi sulla cattedra – li invitava a salire a loro volta sui banchi per vedere il mondo da un altro punto di vista. E che altro è la filosofia se non questo continuo déplacement, che può trasformarsi in un vero e proprio dépaysement quando i confini del tuo remoto angolo di mondo ti appaiono all’improvviso insufficienti ed angusti per dar luogo ad una visione d’insieme? Spaesati, fuori dei confini, ostaggi di un pensiero che non si rassegna al limite: così Giuseppe Limone lascia i lettori, trascinandoli in visioni che si intersecano, sovrapposte come sono in un immenso caleidoscopio di immagini che lasciano immutato il senso del mistero, al punto che quest’ultimo pervade la mente fino a soverchiarla.

È una visione che svela il rovescio, dove tutto ciò che è fatto può ridiventare non fatto, dove si può essere dall’altra parte, separati e congiunti da uno spessore sottile. Si tratta di un mondo in cui ti si para dinanzi il negativo: l’antimateria, la traccia che ti sprona all’ecfrastica, mentre l’uomo nero – l’uomo altissimo – incombe nel paesaggio dei tuoi pensieri. E di colpo, ecco emergere come dallo spruzzo di una seppia inseguita il matrimonio regale che straripa da un pugno liquido di spuma spuntato in mille Veneri del mare. La sposa, dai capelli biondissimi e lucenti – quasi evocanti il sole che mancava – avanzava, accompagnata da un signore mite, dalla figura rigida e perfetta, tutta resa presente e zampillata in baffi lunghi, inamidati da una monumentale cura millenaria. Insieme allacciati, venivano avanti in un monumentale intreccio di dita.…

In questa narrazione del mondo di un possibile pensato, in cui – ricordiamolo! – anche il non accadere è accaduto, non si scorge tanto la voragine degli sconfitti quanto la porta mai aperta, il bacio non dato, la foto bruciata, la vendetta non consumata, il continente non visto che vive la stessa vita ma dall’altra parte. Una vita che comunica nei sogni, nel non detto, nelle parole non pronunciate, o piuttosto nei colpi di genio improvvisi e tumultuosi come la furia del vento.

È un testo che mi piacerebbe recensire facendo ricorso alla musica piuttosto che ai ragionamenti e alle parole, anzi vorrei poterlo commentare con una danza, in cui ogni gesto della coreografia fosse congeniale all’emozione provata, ripercorrendo il fiume carsico delle frasi musicali ricorrenti tra le righe come nei pentagrammi di una sinfonia: frasi che si perdono e presto si ritrovano sotto altra forma con rinnovato stupore. Eppure c’è nel testo un’intensa narrazione, certamente autobiografica, di improvvisi trasalimenti, di verità che ti si parano dinanzi come rocce acuminate o montagne da scalare…

Lo sgomento di Rob – come la meraviglia del filosofo – è l’archè di questo racconto vibrante, che inneggia alla vita e comunica un’emozione oscura inquietante, che ti impedisce di lasciarlo prima di averlo condiviso fino in fondo. Si potrebbe dire che la sua lettura quasi ipnotizzi: nel dipanarsi della trama c’è il senso della precarietà della vita ma anche della perenne, multiforme e cangiante energia del pensiero che sfida le vette dell’infinito mistero dell’esistenza, in un poderoso cimento di ecfrastica del sogno e della realtà.

Per gentile concessione di Franco Genzale, dall’omonimo sito web

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Mirella Napodano

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