Coltivare il presente per pensare al futuro. Gli Stati Generali della Natalità riuniti a Roma.

Un grande movimento al lavoro per proporre soluzioni concrete al preoccupante fenomeno del calo delle nascite in Italia.

Nello scorso mese di agosto, al Meeting di Rimini, il Presidente Mario Draghi esprimeva un auspicio perché, passata la pandemia, il nostro paese ritrovasse quello spirito che animò l’Italia di Acide De Gasperi nell’affrontare l’impegno della ricostruzione dopo la devastante esprerienza della guerra. Già qualche anno prima della fine del conflitto, il leader democristiano aveva elaborato le sue Idee ricostruttive e a Rimini Draghi ha sostenuto la necessità di avviare una simile riflessione anche oggi per quella che dovrà essere la ricostruzione post-Covid, aggiungendo anche che «c’è bisogno che questa riflessione cominci subito».

L’azione della pandemia non si è ancora conclusa, ma quello spirito degasperiano sembra essere oggi già all’opera. Gli Stati Generali della Natalità, riuniti a Roma il 14 maggio scorso alla presenza di papa Francesco, ricordavano molto la concretezza di quelle Idee ricostruttive che, dopo un’esperienza sanguinosa e umiliante come la guerra, hanno consentito agli italiani di risollevare la testa e di ricominciare a vivere.

Allora si trattava di trovare le risorse per ricostruire le case distrutte dai bombardamenti, le strade, i ponti. Si trattava di ricostruire quelle infrastrutture che potevano consentire al paese di rimettersi in moto. Oggi la realtà è molto diversa e per certi aspetti ancora più drammatica. È venuto meno infatti non tanto un tessuto economico, che pure ne esce provato, ma la sua infrastruttura primaria, come oggi comincia a chiamarla qualcuno, quella del capitale umano.

L’Italia è nel pieno di un declino demografico. Il numero di bambini che nasce è così basso da far temere per la tenuta della società, particolarmente per quanto riguarda il sistema pensionistico e quello della sanità. Continuando così, l’Italia è destinata a scomparire. Per questo, intervenendo agli Stati Generali della Natalità, Draghi è tornato sulla sua proposta: «Questa è epoca di grandi riflessioni collettive».

Dopo i saluti e gli interventi istituzionali che riportiamo in un articolo a parte, ha preso la parola Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat che, attraverso i dati elaborati dall’istituto nazionale di statistica, ha descritto il quadro della situazione demografica italiana, un quadro che desta notevoli preoccupazioni per le conseguenze che il fenomeno della denatalità in atto potrebbe determinare.

Le indicazioni di Gian Carlo Blangiardo

Il prof. Blangiardo, intervenedo agli Stati Generali della Natalità, pur nell’estrema problematicità della situazione, ha voluto comunque indicare la strada di una ripresa, una strada che potrebbe invertire la rotta. Si tratta di assecondare, con sostegni economici e strumenti di welfare, il desiderio di quelle coppie che vogliono avere figli. Per Blangiardo è realistico attendersi da ciò un incremento di 0,6 nati in più per donna, un dato che pur apparentemente di modesta entità, nel corso di dieci anni porterebbe il numero dei nuovi nati da meno di 400mila come è attualmente a più di 500mila, orientando così il nostro paese verso prospettive più incoraggianti.

Questa inversione di rotta è già avvenuta in altri paesi. Potrebbe quindi avvenire anche in Italia. La condizione è sostenere le famiglie che vogliono mettere al mondo dei figli, ma sostenerle in modo da riuscire a dare, soprattutto alle giovani coppie, un contesto di certezze in cui inserire i bambini che nasceranno.

Per Gigi De Palo, presidente del Forum nazionale delle associazioni familiari, questo è un tema che riguarda tutti e che però sta dimostrando anche di essere capace di unire tutta la società italiana e non di dividere, come forse si potrebbe temere. «Il declino demografico» ha detto De Palo, «è un’emergenza non solo italiana ma europea. Si parla tanto di sviluppo sostenibile. Ma occorre essere chiari: non ci sarà alcuno sviluppo sostenibile, in Italia come in Europa, senza equilibrio intergenerazionale. Perciò dobbiamo capire che le politiche demografiche non sono costi ma investimenti».

Per il presidente del Forum, «ormai fare un figlio è diventato un lusso, se è vero che è una delle prime cause di povertà. Ma come può diventare fonte di povertà la nascita di un bambino? Un tempo era ricchezza. Oggi è uno dei cambiamenti che mette in difficoltà le famiglie».

Se non si interviene su questo crolla tutto. Non soltanto per chi non ha visto realizzarsi il desiderio di generare figli, ma anche di chi ha scelto di non averli. Perché riguarda il futuro di tutti, la stessa sopravvivenza del paese, la speranza di un popolo. «Non vogliamo rassegnarci» ha detto Gigi De Palo, «a un paese stanco e ripiegato su se stesso, come un pugile sulle gambe che non riesce più a riprendersi. Non vogliamo rassegnarci a famiglie stanche, che non arrivano alla fine del mese perché sono abbandonate a sé stesse».

Ma non mancano segni incoraggianti. Si sono visti questi segni nell’unanime consenso, in Parlamento e nel paese, che ha riscosso l’iniziativa dell’assegno unico proposto dal Forum delle famiglie. «Nulla è ancora definitivamente perduto» ha concluso il presidente De Palo, «se iniziamo a rimboccarci le maniche e a remare controcorrente, senza mai perdere la fiducia di poter incidere su processi, decisioni e idee delle persone, così da invertire finalmente la rotta, restituendo una speranza veramente nuova alle famiglie di tutto il paese».

È una strada difficile, che nessuno può pensare di risolvere soltanto con strumenti come l’assegno unico o altro. È una strada che richiede una riflessione che prenda in considerazione tutta la complessità dei problemi che l’inverno demografico ha creato. Non c’è per esempio soltanto un problema economico. Soprattutto in alcune aree del territorio nazionale la denatalità è legata al triste fenomeno dello spopolamento. Particolarmente grave appare la situazione in una regione come la Basilicata che riporta i bilanci peggiori, purtroppo da tanti punti di vista.

Qui forse si giocherà la partita più difficile, ma è una realtà che non si può ignorare. Le aree interne in Italia occupano il 60 per cento del territorio nazionale e qui è collocato oltre il 50 per cento dei comuni italiani.

Il caso Basilicata

L’ultimo Report degli indicatori demografici rilasciato nelle settimane scorse dall’Istat ha descritto, come sappiamo, una situazione molto pesante per la natalità in Italia. Una situazione aggravata da una pandemia che si è rivelata anche più aggressiva di quanto previsto. All’interno di un quadro così cupo, forse nessuno si aspettava che proprio in una regione come la Basilciata si presentasse il bilancio peggiore. Nei grafici seguenti riportiamo i dati regionali riguardo al tasso di fecondità e di età media del parto, dati che più di altri sono indicativi del problema.

Si è sempre pensato che almeno al Sud la famiglia tenesse, che fosse ben strutturata e quindi positivamente disposta ad accogliere la vita. Non era evidentemente così, la situazione stava in realtà precipitando rovinosamente.

Un’importante osservazione da fare a questo proposito è che il calo delle nascite al Sud pare sia da attribuire non soltanto alle difficoltà economiche che pesano sulle famiglie con più figli ma anche dall’emigrazione dei giovani. Se i giovani lasciano la Basilicata per andare in altre regioni o all’estero, viene meno proprio la popolazione in età fertile e le nuove famiglie vanno a incardinarsi altrove.

Come è evidente, questo è un problema molto complesso che non può risolversi soltanto con incentivi di carattere economico. C’è da aggiungere che i giovani che vanno via dalla Basilicata non lo fanno nemmeno per trovare un lavoro. Vanno via molto prima, al momento di scegliere la facoltà universitaria. Spostandosi al Nord per frequentare l’università, raramente i giovani fanno ritorno alla regione di origine.

Non bisogna trascurare che più in generale il problema della denatalità in Italia è anche condizionato dal fatto che molti giovani italiani non riescono a trovare localmente le condizioni per esprimere adeguatamente le proprie competenze professionali e scientifiche e decidono di rivolgersi a centri di ricerca all’estero. Qualcosa di simile capita al Sud, ma in maniera molto più consistente, con i fenomeni di migrazione interna.

Non bisogna dimenticare inoltre che ormai quando si parla di Sud non devono tanto intendersi le regioni meridionali, da Pomezia in giù, come era un tempo. Sud sono tutte le aree interne della Penisola, tutti i piccoli centri urbani dell’Appennino e di buona parte dell’arco alpino. Tutte le zone montane sono soggette a un drammatico spopolamento.

Il Sud comincia ormai dall’Appennino emiliano. Da questi centri si va via perché non ci sono scuole, per non parlare della carenza assoluta degli asili nido. Quindi, da questi posti o ci si sposta nelle grandi aree urbane o si rinuncia a fare figli.

L’abbandono dei paesi di origine non significa semplicemente abbandonare le vecchie abitazioni. Significa purtroppo abbandonare le persone anziane, i propri vecchi che sono, tra l’altro, i soggetti più fragili. Abbandonandoli in centri dove si registrano carenze gravissime nell’assistenza sanitaria. Sono posti da dove è difficile raggiungere gli ospedali e a fare le spese di ciò è proprio la popolazione che di questo ha maggiormente bisogno, come appunto la popolazione anziana. Bisogna sapere che nelle aree interne mancano del tutto anche i servizi essenziali. Sono sempre più numerosi i comuni dove non c’è più nemmeno un ufficio postale o uno sportello bancario dove un anziano possa andare a riscuotere la propria pensione o a prelevare una qualsiasi somma di danaro.


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Paolo Tritto

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