Un paese stanco che deve recuperare la speranza

Secondo l'ISTAT, tra la popolazione italiana, le fasce più deboli soffrono per gli effetti della pandemia e per l'inflazione ai massimi da gennaio 1986

Il rapporto annuale 2022 presentato dall’ISTAT non si limita a confermare quanto già rilevato negli anni precedenti riguardo al grave squilibrio demografico che affligge la nazione, squilibrio provocato dal crollo delle nascite e dall’invecchiamento della popolazione. Il rapporto va anche a verificare gli effetti che hanno prodotto, sulla popolazione del paese più vecchio del mondo, l’altrettanto grave frangente economico dovuto alla pandemia.

Il dato più impressionante è che in Italia il dieci per cento della popolazione versa in uno stato di povertà assoluta, il doppio rispetto al 2005. Si potrebbe fare della facile ironia, ricordando l’esultanza dei promotori del reddito di cittadinanza al momento della sua approvazione, quando si disse “abbiamo eliminato la povertà”. Invece, si deve riconoscere che, se non fosse stato per il RdC, un altro milione di poveri – parlando sempre di povertà assoluta – si sarebbe aggiunto ai quasi sei milioni certificati dall’ISTAT.

Purtroppo, come si dice, le disgrazie non vengono mai da sole. E quando si parla di povertà, nell’Italia del 2022, non si parla soltanto di scarsità di risorse economiche, di fame. Si parla anche – forse soprattutto – di solitudine. L’Istituto di statistica ci dice che nel nostro paese i nuclei familiari composti da una sola persona sono ormai più numerosi delle cosiddette famiglie tradizionali, cioè composte da una coppia con figli. Per alcuni, vivere da single sarà pure una scelta di vita, ma per altri – forse la stragrande maggioranza – è una triste condizione in cui ci si è venuti malauguratamente a trovare. Circa il dodici per cento della popolazione è costituita da anziani che vivono in condizioni di solitudine. E facilmente si può immaginare con quali disagi se la solitudine è un problema anche per chi è nel pieno delle forze.

L’economista Leonardo Becchetti commenta a questo proposito su twitter: «La crisi demografica non è solo fatto economico ma crisi di relazioni e di capacità di guardare con speranza al futuro». La crisi demografica, cioè, pone una domanda che non può essere elusa, una domanda circa la speranza. Che speranza abbiamo? In cosa può ancora sperare questo paese stanco? Perché dietro al crollo delle nascite ci sono, è vero, tante cause. Ma bisogna cominciare a essere consapevoli che la principale delle cause è che si è appannata negli uomini la stessa speranza. Soprattutto, purtroppo, tra i giovani; proprio tra coloro, cioè, che dovrebbero aprirsi con speranza al futuro.

La speranza è anche qualcosa di molto materiale; qualcosa, come ci ricorda il Padre Nostro, che ha a che fare con il pane quotidiano. Questo purtroppo comincia a mancare non soltanto tra chi è in condizioni di povertà assoluta. Ma anche per altri quattro milioni di lavoratori con un reddito annuale che non supera i dodici mila euro lordi. Si tratta, nota Rosaria Amato su Repubblica, di «camerieri, baby sitter, insegnanti privati, addetti alle pulizie, un esercito di lavoratori di serie B sui quali molto più degli altri dalla fine dell’anno scorso si è abbattuta l’inflazione, la “tassa diseguale”, che colpisce molto di più i poveri dei ricchi».

Il Rapporto dell’ISTAT ricorda: «L’inflazione a giugno ha raggiunto l’8,0% per l’indice NIC, ai massimi da gennaio 1986, sospinta dai rincari delle materie prime, in particolare del gas naturale, il cui prezzo è aumentato di circa sei volte».

A pagare il prezzo più alto di tutto questo sono dunque le fasce più deboli della popolazione. Per esempio, rispetto al 2005 si è quadruplicato il numero dei bambini che vivono in povertà assoluta. Adesso sono un milione e trecento mila; è un dato che indubbiamente scuote le coscienze. Dobbiamo essere capaci di restituire, almeno a questi bambini, una valida speranza.

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Paolo Tritto

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